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Siamo tutti spiati

Il vicequestore Gioacchino Genchi racconta anni di indagini e metodi di investigazione tramite intercettazioni ambientali: "Il telefono che non si può rintracciare? Quello guasto"

I love Sicilia - 28 luglio 2006 - di Riccardo Arena

Screenshot 2019-05-29 11.17.53Di seguito l’intervista rilasciata da Gioacchino Genchi al magazine I love Sicilia. Qui il testo in pdf.  

 

Spie di professione che vengono spiate, 007 che collezionano malefigure, talpe a libro paga dei boss che cascano nel tranello delle intercettazioni, banchieri furbetti che tramano via etere, direttori generali di squadroni di calcio che parlano come capibastone. Alla fine i mafiosi si vedono quasi rubare il mestiere, loro che di professione delinquono e cercano di sfuggire ai controlli. Sì, però uno parla e non si rende conto di quel che dice, magari fa come il boss palermitano Nino Rotolo, che – in maniera anche un tantino comica – cazziava amabilmente un amico che era andato a trovarlo: “I telefonini sono pericolosi… Sono come se fosse una microspia… In questi cosi ci si deve levare la batteria e la scheda”, “Lo so”, lo rabboniva l’altro. E Rotolo, sconsolato: “Eh, lo so e ce l’hai in tasca…”.

Sì, perché il boss di Pagliarelli alla sicurezza ci teneva e per questo riceveva gli amici e gli amici degli amici in un box in lamiera della sua abitazione all’Uditore, un capanno che riteneva a prova di qualsiasi tipo di captazione: l’aveva fatto bonificare con un apparecchio sicuro, diceva, era assolutamente certo dì non essere controllato e anzi raccomandava ai compari di stare accorti a casa, in automobile, in ufficio. “Le microspie ci sono… – soleva ripetere, mentre proprio le ‘cimici’ registravano tutto -. Ci sono e ci sono le fotografie nei posteggi, fotografie da tutte te parti… Dovete fare in modo di non parlare di una virgola dentro le aziende vostre e dentro le case…”. Gioacchino Genchi se la ride sotto i baffi. Lui, consulente dell’autorità giudiziaria, da anni ne vede e ne sente di tutti i colori. Vicequestore della polizia, in aspettativa dal 2000, originario di Castelbuono, Genchi ha 45 anni e da più di venti elabora, analizza, connette i dati fra di loro e alla fine individua telefoni, persone, posti. La tecnologia contro il crimine, contro una mafia sempre più imprevedibile e che – Bernardo Provenzano docet – alla fine si può salvare solo se il metodo di comunicazione è quello dei bisavoli: i pizzini. Che vanno piano, ma per anni (43, per l’esattezza) sono andati anche lontano.

Eppure anche Provenzano aveva il terrore di essere beccato dalla “pulce” e nel suo covo sono stati trovati due scanner, che si portava appresso, agli appuntamenti, per scoprire eventuali controlli. Rotolo non è che uno dei tanti che si ritenevano al di sopra di ogni possibilità di intercettazione: prima di lui, anche le talpe della Procura di Palermo pensavano di non essere intercettabili, grazie a una rete di telefonini – intestati a prestanome inconsapevoli – che si chiamavano a circuito chiuso. Ma anche lì ci fu un imprevisto: la moglie di una delle talpe, Pippo Ciuro, commise un errore e chiamò sul cellulare sbagliato. E poi le bonifiche e i bonificatori, i cacciatori di microspie che garantiscono che tutto è a posto: vedi il carabiniere Giorgio Riolo, altra talpa, che candidamente, al processo, ha poi ammesso di aver truffato i suoi “clienti privati”, il presidente della Regione Totò Cuffaro e il manager dell’Ausl 6, Giancarlo Manenti. “Ma perché – ha detto Riolo ai giudici – credete che quelle fossero bonifiche vere? Per farle occorrono apparecchi che stanno dentro valigie, non nella borsetta che mi portavo io… lo lo facevo per farli stare tranquilli…”.

Un placebo informatico, insomma. Genchi annuisce e sorride ancora: “Non é lontano il tempo in cui magari qualche esponente di spicco di Cosa Nostra si costituirà parte civile come persona offesa. Il reato? La truffa”. Parla piano, il superesperto informatico: non perché tema di essere intercettato (“Nessuno è invulnerabile… L’unico telefono che non si può controllare è quello guasto”) ma perché misura le parole, le soppesa, le valuta. Lui, abituato a leggere tra le parole altrui, a collegare un dato con altri milioni che tiene nel suo enorme archivio informatico, utilizza prima di tutto il cervello umano, anziché quello elettronico: “Deve essere sempre l’uomo, l’investigatore ripete – con la sua intelligenza, col suo buon senso, a dirigere e ad organizzare l’intercettazione. Spesso, invece, si mette la spina di una microspia, si collega un ricevitore ad un registratore e si stacca il cervello, dando per scontato che a tutto debba pensare l’apparecchiatura. Non è così. Le intercettazioni vanno fatte bene, sin dal momento in cui si scelgono i posti, i soggetti e le utenze da monitorare. Poi vanno seguite con attenzione”.

Genchi accetta di parlare come consulente della magistratura. Per avere a disposizione la sua esperienza lo chiamano da ogni parte d’Italia: i processi di mafia, certo, le stragi del 1992, l’analisi del personal computer di Giovanni Falcone, ancor oggi custodito in uno dei tanti bunker del suo ufficio, ma anche la ‘ndrangheta, le stragi calabresi, le ricerche della piccola Denise Pipitone. Basta un clic, nel suo ufficio supersorvegliato (che – ironia della sorte – ha sede in uno dei palazzi confiscati a Cosa Nostra, dove i mafiosi della Noce, ripresi dalle microspie dei Ros, brindarono a champagne dopo la strage di Capaci), per mettere assieme dati contenuti in un’agenda con i tabulati delle conversazioni, oppure per ascoltare la viva voce dei protagonisti involontari degli ascolti: gli intercettati.

“Proprio ascoltando le conversazioni – dice Genchi – ci si rende conto di tanti aspetti che magari possono sfuggire alla trascrizione. E il compito di chi deve rendere queste conversazioni sulla carta, appunto il trascrittore, è importantissimo, fondamentale: questi compiti non possono essere affidati come se si trattasse di fare assistenzialismo per giovani disoccupati, una sorta di lavori socialmente utili. A questo pensa il Comune”. La memoria corre indietro nel tempo, quando il direttore di una banca, che magari trafficava con i boss, si vide appioppare pure l’ipotesi di essere uno stragista: “In un’intercettazione – ricorda il vicequestore – qualcuno ritenne che proprio lui parlasse di una bomba nell’aula bunker. Apriti cielo: quel tizio diventò una specie di mostro. Poi si riascoltò attentamente il nastro e si scoprì che si parlava dei bagni della sala pubblico, ovviamente della sede della banca in cui quel direttore lavorava”.

Sul terreno le intercettazioni però lasciano spesso vittime incolpevoli: i tatti nostri, la privacy, amici, amanti, abitudini personali, vizi che dovrebbero restare privati e spesso riguardanti persone che non sono nemmeno indagate. Finisce tutto sui giornali: “Io sono contrario alla diffusione di queste trascrizioni – afferma l’esperto – anche durante il dibattimento, figuriamoci durante le indagini. Ma questo non significa che si debba limitare con una legge ad hoc le intercettazioni, strumento indispensabile per portare avanti le indagini più delicate”.

Altro problema, quello dei costi, dell’aumento che i politici – forse perché temono di essere ‘beccati’ – considerano esagerato, denunciando, da destra e da sinistra, certo modo “allegro” di intercettare tutto e tutti: “Ma non è vero che ci siano aumenti delle intercettazioni – replica Genchi -. Il maggior numero di richieste da parte delle forze di polizia e della magistratura dipende dall’aumento delle utenze da intercettare per una singola persona. Il discorso è semplice: quando c’erano i telefoni E-tacs, bastava mettere sotto controllo un numero fisso e uno di cellulare. Oggi, oltre ai numeri fissi – che spesso magari non CI sono più – ci sono i sistemi roaming degli Umts, le schede che si possono spostare da telefono a telefono e un gran numero di gestori. Così, per rintracciare un solo numero, si devono presentare più richieste a più gestori di telefonia”.

Però al Grande Fratello in perenne ascolto si può sfuggire. A parte l”’albero di Natale”, un apparecchietto da cinque euro, che vendono a Napoli e che si accende se trova “cimici” in macchina, ci sono i sistemi in vendita su Internet: in una recente indagine riguardante Agrigento e Ribera, si è scoperto che i boss avevano una sorta di catalogo di scanner ”veri”, non come quelli propinati a Nino Rotolo. “Esistono programmi – dice Genchi – che possono essere scaricati gratuitamente dalla rete: Msn e Skype permettono di sviluppare conversazioni e persino videoconferenze con più persone, senza che nessuno possa ascoltare. Nella loro ultima versione, come la 2.5 Beta di Skype, è perfino possibile attribuirsi un numero di telefono straniero e comunicare con cordless bivalenti, a computer spento o con comuni gsm. Tutto a costi ridotti rispetto alla media, in assoluto anonimato, con funzioni superiori ai cellulari: è un sistema usato, ad esempio, per scambiarsi filmati e fotografie, dai pedopornograti o dai trafficanti di armi”. Sì, ma si individua l’identificativo, l’lp del computer. “Certo. Ma ai delinquenti, come si usa dire dalle nostre parti risponde Genchi – la testa cammina. Nei punti Hot spot, che una volta erano solo in aeroporto e oggi si trovano anche in stazione, in albergo, nei giardini pubblici, ci si può connettere senza fili e usando ogni volta un Ip diverso”.

Sistemi cui si cercano rimedi di ogni tipo. E così, mentre in Italia si parla di ridurre per legge le intercettazioni, in Europa il Parlamento di Strasburgo consente che i provider conservino per due anni (e si spinge per arrivare a cinque) tutti i dati di ogni utente di Internet: si ti visitati, maiI ricevute e inviate, allegati. Milioni e milioni di dati, in nome della sicurezza contro il terrorismo. Però il Grande Fratello saprà tutto quel che facciamo. Forse non ci resta che fare come quel tizio che Gioacchino Genchi incastrò una serie di volte per rapina. Sempre grazie al telefonino: ”Alla terza volta lui salì a piedi al santuario di Santa Rosalia. Lì giurò solennemente alla ‘Santuzza’ che mai più in vita sua avrebbe usato il telefono. Quando, dopo l’ennesima rapina di cui fu sospettato, la polizia andò a perquisirgli la casa, lui portò gli investigatori nel bagno e fece vedere che aveva tagliato il tubo della doccia, perché, spiegò, lo ossessionava il fallo che somigliasse tanto alla cornetta di un telefono”.

Laureato in Giurisprudenza, avvocato, entrò in polizia nel 1986. Da allora il superesperto ha visto alternarsi una serie di capi: nomi prestigiosi come Giuseppe Porpora, Vincenzo Parisi, Fernando Masone, Gianni De Gennaro, nominato nel 2000 e ancora in carica. Proprio sei anni fa Genchi preferì andare in aspettativa: ”Fu una scelta di deontologia, anche per consentire a me stesso e ai magistrati che si avvalgono delle mie consulenze una garanzia di indipendenza in un’attività che non sempre coincide con le aspettative della polizia giudiziaria”.

Nella sua carriera in polizia, un momento delicatissimo fu la scoperta del ritorno del pentito Totuccio Contorno: un rientro con tante ombre, che diede il via alla stagione del Corvo e dei veleni. Genchi individuò la cabina telefonica di San Nicola L’Arena, da cui Contorno chiamava magistrati e poliziotti. Nel ’92, qualche ora dopo l’attentato di via D’Amelio, Vincenzo Parisi gli affidò l’incarico di coordinare il trasferimento segretissimo, nell’isola di Pianosa, dei boss detenuti all’Ucciardone. Qualche rimpianto? “C’è una grossa differenza tra il fare scoprire il covo di Contorno e quello di Bernardo Provenzano a Corleone. Io, purtroppo per me, ho potuto partecipare solo alla prima di queste operazioni di polizia e probabilmente è anche per questo che oggi mi sono trovato a fare il consulente. Comunque ne sono contento”.