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“Il depistaggio su Borsellino mostra il nostro Stato debole”

AURELIO GRIMALDI - Il regista e la cronaca. "I miei film non parlano di misteri irrisolti, raccontano fatti. Mi documento, ma non sul web"

il Fatto Quotidiano - 8 giugno 2024 - di Giuseppe Lo Bianco


 
L’ultimo ciak è quello buono, lungo il corridoio del carcere mandamentale di Gangi il procuratore Lari (l’attore Andrea Tidona) e il suo sostituto si apprestano a interrogare Scarantino, Candura e Andriotta. È il disvelamento del “depistaggio più grande della storia italiana”, e la scena si chiude con la voce fuori campo del procuratore: “Mi raccomando la videoregistrazione”. “È un escamotage di sceneggiatura per lanciare i video”, spiega il regista Aurelio Grimaldi, seduto in pausa pranzo a mille metri di altezza sulle Madonie, nel “borgo più bello d’Italia”. “Dovevamo girare nel carcere di Termini Imerese – dice l’addetto stampa della produzione – ma il ministero ha negato l’autorizzazione”. Il regista ha firmato anche soggetto e sceneggiatura e ha deciso di non avvalersi di un aiuto regista. Lo abbiamo intervistato.
 
Grimaldi, come è nata l’idea del film?
Sono grato a David Coco che mi ha fatto scoprire il testo di Claudio Fava sul depistaggio, tratto dagli atti della Commissione antimafia regionale. Lì incontro Fiammetta Borsellino che mi fa i complimenti per Il delitto Mattarella: venivo dai rapporti con la famiglia del capo dello Stato e cioè il Presidente e Maria e Bernardo, figli di Piersanti, qui lo dico e qui lo nego, ci sono stati scambi dettagliati sulla sceneggiatura, ma per ovvie ragioni dovevano restare riservati: con Fiammetta ci può essere invece uno scambio diretto ed esplicito.
 
In che senso?
Fiammetta, l’avvocato Fabio Trizzino e Lucia Borsellino hanno letto più volte le varie versioni della sceneggiatura facendomi osservazioni testuali: “I fatti sono questi”. Trizzino mi ha anche dato una corposa documentazione su mafia e appalti, preziosissima, anche se all’inizio ero perplesso, e prima che uscisse il libro del colonnello De Donno. Ma devo dire grazie anche all’ex pm di La Spezia Augusto Lama e agli avvocati Gioacchino Genchi e Rosalba Di Gregorio: il primo mi ha mandato materiali, la seconda mi ha fatto comprendere il punto di vista delle parti civili vittime del depistaggio. E naturalmente all’ex Procuratore di Caltanissetta Sergio Lari. Infine devo dire grazie alla Regione Siciliana nell’ingresso nella co-produzione con una cifra elevata.
 
Molto sul depistaggio, insomma, poco sui mandanti e sui misteri ancora irrisolti…
I miei film non parlano di misteri irrisolti, ma raccontano fatti. E io non navigo sul web, ho letto gli atti processuali e mi sono avvalso delle consulenze che ho indicato. Le racconto una cosa: quando ho chiesto a Claudio Fava se Tinebra fosse cretino o colluso, ci ha pensato un attimo, segno che neanche lui aveva certezze, e poi mi ha risposto: colluso.
 
E La Barbera? Nel film emergerà che le responsabilità maggiori siano da addebitare a lui?
Il film è diviso in tre fasi, dall’omicidio Lima a Capaci e ai 57 giorni fino alla strage di via D’Amelio, il depistaggio con le torture e le botte a Scarantino, interpretato da Vittorio Magazzù (“era il killer del delitto Mattarella ma qui mostra il suo vero talento”) e infine le rivelazioni di Spatuzza a Grasso con gli interrogatori finali di Lari per ristabilire lo Stato di diritto. La mia idea è che La Barbera sia il deus ex machina del depistaggio, la rabbia è che il sistema Stato è debolissimo. Noi siamo rimasti ai servizi come 007, in realtà sono strutture pubbliche che devono dare conto a un magistrato. Non trovo strano che i servizi si occupano di un caso come questo, trovo strano che siano presenti subito dopo l’esplosione.
 
Guardi che la scelta di affidare le indagini al Sisde di Contrada è definita “irrituale” nella sentenza del Borsellino quater, e ulteriormente precisata dal gip Stefano Montoneri che ha archiviato una querela del procuratore Bertone contro l’avvocato Fabio Repici: quell’espressione (“irrituale” ndr), scrive il giudice, “è da qualificarsi come illecita, poiché contraria a norme di legge”. È che i suoi film si muovono nel solco di un cinema di denuncia ormai scomparso, ma quell’approccio narrativo, la divisione manichea tra buoni e cattivi, come in un western, rischia di rivelarsi limitante per le implicazioni ancora oscure a distanza di 32 anni dalla strage. Come ha risolto i problemi di sceneggiatura?
Sono della scuola di Francesco Rosi, sulle posizioni non documentate il regista prende una posizione logico storica: dall’esistenza di fatti collaterali deduciamo che è molto probabile che è successo “questo”. Al di là del fatto che su Borsellino hanno fatto le fiction televisive, che a mio giudizio non si possono guardare, il film si chiude con una catilinaria del giovane pm che si dimette accusando il sistema, le prescrizioni, gli errori giudiziari, i colleghi che non sono all’altezza. L’aspirazione del film è mostrare la giustizia come valore assoluto.
 
Le fiction, appunto. In questi anni l’antimafia è stata raccontata spesso in modo retorico, pietistico, didascalico, ai confini del grottesco. Con la Commissione Antimafia in sessione ancora aperta, e i familiari di Borsellino divisi sulla linea da seguire, c’era bisogna di una nuova fiction su una vicenda che a distanza di 32 anni impegna ancora il Parlamento e mantiene dunque la propria inossidabile attualità con il suo carico di misteri?
Nessun medico mi ha prescritto di fare il regista, lo ritengo un privilegio e mi ritengo fortunato. Non frequento salotti e ringrazio il sistema occidentale che mi offre questa opportunità. Ricordo soltanto che Rai3 ha rifiutato Il delitto Mattarella per il cartello finale in cui si vedeva Marcello Dell’Utri, a ricordare che non era soltanto Andreotti che incontrava i capi della mafia.