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Gli incontri senza telefoni? Anche al Csm

Gli indagati del caso Toti volevano evitare le intercettazioni. Come fecero Ermini e Davigo

il Giornale - 14 maggio 2024 - di Felice Manti


 
Finita l’abbuffata delle intercettazioni, smaltita la sbornia per le suggestive ipotesi giudiziarie, nell’inchiesta sul governatore della Liguria Giovanni Toti a essere «processate» sono anche le fotografie e le intenzioni. Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato l’immagine dei telefonini di Paolo Signorini, il presidente dell’Autorità portuale di Genova, dell’imprenditore Aldo Spinelli e del figlio «depositati all’esterno del loro yacht». «Un’accortezza precauzionale» – scrive il Corriere – per «evitare che potessero essere intercettati i colloqui riservatissimi in coperta», rivelati in realtà dalle microspie piazzate a bordo dalla Finanza.
 
Se basta un’intenzione per destare un sospetto, allora cosa si dovrebbe pensare di chi ha utilizzato lo stesso stratagemma in altre circostanze? L’esempio più lampante arriva dal libro intervista a Luca Palamara Lobby & Logge curato da Alessandro Sallusti. C’è un intero capitolo dedicato alla vicenda di Piercamillo Davigo e del pasticcio delle carte sulla fantomatica Loggia Ungheria spiattellate in giro da consigliere del Csm nel suo incontro a Palazzo de’ Marescialli con il vicepresidente David Ermini, una violazione del segreto costata all’ex Mani Pulite una condanna confermata in appello a Brescia: «Arriva a Roma con nella borsa una copia dei verbali di Amara (…) Davigo sale le scale di Palazzo dei Marescialli fino al primo piano, dove c’è l’ufficio del vicepresidente, David Ermini – racconta l’ex magistrato oggi in corsa alle Europee per Ap – Qualche minuto di convenevoli, poi i due si accordano per lasciare i rispettivi telefonini sulla scrivania e di proseguire il loro incontro con a tema la loggia Ungheria in cortile. Così scendono e iniziano a passeggiare».
 
Che cosa avevano da nascondere i due? Perché lasciare i telefonini in ufficio? Di cosa potevano mai aver paura il numero due dell’organo di autogoverno della magistratura e uno dei magistrati di punta del Csm? La stessa scenetta avverrà poco dopo, quando Davigo solo sulle scale e non in ufficio mostrerà il dossier al politico M5s Nicola Morra, allora presidente della commissione Antimafia. «Di chi non si fidano al punto da dovere nascondere le proprie parole nel tempio che dovrebbe custodire la sacralità della giustizia? Dei colleghi? Temono di essere controllati dai servizi segreti? Sono parole lecite oppure vogliono nascondere qualcosa?», si chiede lo stesso Palamara.
 
Tutti interrogativi figli del trojan, rimasti (finora) senza risposta. Se neppure il capo del Csm può sentirsi al sicuro è colpa del cortocircuito che ha generato la tecnologia dei captatori informatici, capaci di ascoltare le telefonate e di trasformare il nostro caro cellulare – anche da spento – in un microfono che tutto sente e tutto registra e che può anche manipolare i dati in esso contenuti, come denunciano da tempo esperti come Gioacchino Genchi alle commissioni Giustizia di Camera e Senato che stanno lavorando alla stretta sulle intercettazioni e all’ok di un giudice per l’autorizzazione all’ascolto. Una decisione in linea con la giurisprudenza europea che prevede – come ricorda una delle ultime sentenze della Corte di giustizia Ue – il rispetto della privacy e delle garanzie anche per i narcos che usano sistemi protetti come SkyEcc o Encrochat e che si ritrovano violati i propri cryptofonini da Interpol e Europol».
 
D’altronde, come ricorda ancora Palamara nel libro «quando le sono disposte dall’autorità giudiziaria, il confine tra gli ascolti legali e quelli illegali non è così netto», perché finiscono sui giornali conversazioni private irrilevanti o messaggi protetti dalle garanzie costituzionali come per Matteo Renzi, Luca Lotti o Cosimo Ferri (solo per fare tre nomi). I server delle aziende private sono fin troppo penetrabili da soggetti interessati, come «pezzi di servizi segreti deviati a loro volta in contatto con lobby di vario genere», per usare le parole dell’ex pm Palamara. Un confine sottile, lo abbiamo visto tra le pieghe dello scandalo sui presunti dossieraggi su cui indaga la Procura di Perugia.
 
Sono sempre più numerosi i magistrati che hanno abbandonato lo smartphone e sono tornati ai cellulari di prima generazione, «che al massimo possono essere intercettati e che se spenti sono solo un soprammobile», ricorda l’ex leader Anm a Sallusti. Una scelta condivisa anche da Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, che non dovrebbe aver timore di essere intercettato, eppure…
 
E qui che il dubbio sollevato qualche giorno fa da Matteo Salvini torna a fare capolino: «Vorrei sapere, se ci fossero microspie negli uffici di qualche magistrato, per quanto tempo continuerebbe a farlo, il magistrato». Se passasse la riforma non lo sapremmo mai.
 
Per fortuna.