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Trapani, fra mafia e servizi deviati

Limes - 1 febbraio 2005 - di Salvo Palazzolo

Giovanni Falcone andò via da Palermo con un rimpianto, non essere riuscito a indagare sulle attività di Gladio in Sicilia, che aveva avuto base a Trapani, con il nome di Centro Scorpione. La struttura segreta creata in funzione anticomunista negli anni Cinquanta era stata riconvertita trent’anni dopo in funzione antimafia, almeno così dissero i vertici del Servizio segreto militare quando Gladio fu svelata al paese dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, nel 1990. Ma quale attività contro la mafia aveva svolto il Centro Scorpione dall’anno della sua inaugurazione, ufficialmente il 1987? Nessuno lo ha mai saputo. Quando Falcone provò a scoprirlo, cercando possibili contatti con i delitti eccellenti commessi a Palermo, l’allora procuratore Pietro Giammanco gli comunicò che avrebbe gradito condurre lui quell’inchiesta. E Falcone andò via da Palermo, accettando il posto di direttore degli affari penali che gli era stato offerto dal ministro della Giustizia Claudio Martelli.

A Roma, Falcone continuava a conservare l’archivio di Gladio nel suo computer. E aveva ben in vista tanti altri appunti su quell’indagine mai avviata. Sapeva di alcuni viaggi verso Trapani fatti periodicamente da Nino Agostino, un poliziotto ucciso a Palermo nell’agosto 1989 assieme alla moglie (caso rimasto irrisolto). Giovanni Falcone ricordava le parole del giornalista sociologo Mauro Rostagno, che si era presentato all’improvviso a palazzo di giustizia, nell’estate ’88, due mesi prima della sua morte (altro omicidio rimasto senza colpevoli). Gladio e i segreti di Trapani furono l’ultima indagine di Giovanni Falcone, anche se ufficialmente, al ministero, non poteva più fare indagini. E fu il primo segreto che alcune figure rimaste senza identità andarono a cercare nei computer del giudice, nell’ufficio di via Arenula, poche ore dopo la strage di Capaci. I consulenti informatici incaricati dalla Procura di Caltanissetta si accorsero presto di quegli strani accessi: collegata al computer da tavolo era rimasta una unità di «back-up», ma delle relative cassette magnetiche non si è mai trovata traccia. Sulla stessa scrivania, il giudice teneva un notebook Compaq, protetto da chiave elettronica: il contenuto del computer venne consultato maldestramente, cancellando le date originali dei documenti. Imperizia degli investigatori o quei file erano stati letti da qualcun altro che aveva poi cercato di depistare, sviando i sospetti?

Da allora, la Gladio siciliana continua ad essere un mistero. Tutto attorno alla filiale trapanese di Cosa nostra. Le audizioni dei responsabili del Centro Scorpione, il tenente colonnello Paolo Fornaro e il maresciallo Vincenzo Li Causi, non hanno chiarito i dubbi sulle reali funzioni della struttura, che operò fino all’aprile 1990. Li hanno anzi accresciuti. Fornaro ha ammesso di essere stato inviato in Sicilia per impiantare un’azione di contrasto contro la criminalità organizzata, Li Causi ha ribadito che il centro si occupava solo di preservare la nazione da attacchi nemici, spiegando di aver letto esclusivamente sui giornali di quella direttiva inviata dai vertici del Sismi per calibrare le attività verso un impegno antimafia. Le dichiarazioni sono in palese contraddizione. A più alto livello è rimasta senza risposta la domanda: chi autorizzò il Sismi ad occuparsi di contrasto alla criminalità organizzata?

«L’attività del centro Scorpione si è svolta in anni cruciali per la Sicilia e per le vicende della lotta contro la mafia», ha scritto il senatore Massimo Brutti nella relazione presentata alla commissione parlamentare Antimafia nel giugno 1993: «Sono gli anni tra il 1987 e il 1990. Gli anni delle sentenze di appello favorevoli ai mafiosi e dei numerosi annullamenti di condanne già inflitte, decisi dalla prima sezione della Cassazione. Sono gli anni in cui è stata condotta una vasta opera di intossicazione informativa, di intimidazione e di aggressione diretta, contro i magistrati più impegnati nella lotta contro la mafia. Le lettere anonime contro Giovanni Falcone cominciarono alla fine del 1988. Nel giugno del 1989, l’attentato dell’Addaura intervenne proprio al culmine di questa strategia della calunnia. Falcone riteneva che esso fosse opera di “menti finissime”.

Nello stesso periodo si ebbero alcuni grandi delitti. (…) Nel settembre 1988 venne assassinato Mauro Rostagno, giornalista, alla guida di una comunità di recupero per tossicodipendenti ed impegnato, oltre che nella comunità, in un’azione di denuncia degli intrighi mafiosi a Trapani. Rostagno fu ucciso nella stessa circoscritta zona in cui operava il centro Scorpione, in contrada Lenzi: una zona strategica per il traffico di droga e di armi a cui erano e sono interessate le famiglie più forti di Cosa nostra».

Di cosa si occupava dunque il Centro Scorpione? Quale rete informativa aveva messo in atto? A cosa serviva l’aereo che Fornaro e Li Causi hanno ammesso era a disposizione della struttura segreta in località Castelluzzo di San Vito Lo Capo? Due inchieste della magistratura, una della Procura di Trapani, l’altra della Procura di Roma, hanno lasciato irrisolti tutti i dubbi. Anche sul caso Rostagno pende attualmente una richiesta di archiviazione del pm palermitano Antonio Ingroia nei confronti di alcuni capimafia, lungo una pista d’indagine che incrocia il traffico d’armi e gli interessi di Cosa nostra.

Cosa disse Mauro Rostagno a Giovanni Falcone, due mesi prima di essere ucciso? «Tra marzo e giugno di quell’anno – ha raccontato una collaboratrice del giornalista sociologo – Mauro mi rivelò che era stato chiamato da alcuni personaggi influenti trapanesi che lo avevano consigliato di lasciar perdere la sua inchiesta sulla loggia massonica Scontrino. Nello stesso periodo di tempo Mauro stava raccogliendo, in gran segreto, materiale per una sua ricerca fondata su una tesi che vedeva, secondo lui, collegamenti precisi tra l’omicidio del giudice Ciaccio Montalto, le indagini da questi portate avanti, la famiglia Minore di Trapani, il boss mafioso Mariano Agate e alcuni imprenditori catanesi». Non era la sola inchiesta delicata che Rostagno portava avanti: quando a metà degli anni Novanta l’allora procuratore Gianfranco Garofalo riaprì il fascicolo dell’omicidio, venne fuori la rivelazione di un amico di Mauro, il giornalista Sergio Di Cori: «Mi confidò di un traffico d’armi che avveniva in una pista aerea in disuso che si trova nei pressi di Trapani. Aveva fatto delle riprese con una telecamera». Anche queste indagini hanno cercato riscontri, ma si sono fermate davanti a muri di segreti. La pista di Kinisia è ancora lì, apparentemente abbandonata fra due colline che la nascondono persino ai radar del vicino aeroporto militare di Birgi: continua ad essere zona militare. Sulla collina della torre di controllo resta scritto con delle tegole, «4° SQD BL . PE», in modo da essere ben letto dall’altro. Alla destra della sigla, c’è una «Delta», con una estremità rivolta all’inizio della pista di atterraggio. Sul pavimento della torre di controllo, poi, la scritta «APP. F.» e un cerchio di vernice rossa, forse ad indicare il punto in cui appoggiare uno strumento utile per un’eventuale manovra di atterraggio.

Quando i magistrati trapanasi chiesero allo Stato Maggiore della Difesa se nell’estate 1988 la pista fosse stata utilizzata, arrivò subito una risposta negativa. Poi, la Digos trovò una videocassetta negli archivi di una tv locale, e lo Stato Maggiore fece un passo indietro: finalmente saltò fuori che proprio fra luglio e settembre 1988, a Kinisia, sia era svolta una esercitazione militare molto particolare. Era la “Firex 88”: veniva simulata un’occupazione da parte nemica dell’aeroporto di Birgi, successivamente liberato grazie a un attacco congiunto di forze navali, terrestri ed aeree. La base operativa dei «commando», che viaggiavano su elicotteri in assetto da guerra, era proprio la pista di Kinisia.

Nell’aeroporto abbandonato sono tornati infine anche i magistrati di Palermo che indagavano sul viaggio segreto in Sicilia di Giulio Andreotti per incontrare il capomafia Stefano Bontade: era la primavera del 1980, pochi mesi dopo l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella. Reato cancellato dalla prescrizione, ma non dalla storia: la Cassazione ha creduto al racconto del pentito Francesco Marino Mannoia. I giudici hanno però ritenuto che l’aereo di Andreotti («era un aereo privato affittato dai cugini Salvo») sia atterrato non a Kinisia ma a Birgi, in uguale segretezza. Ogni richiesta di informazione, al proposito, è andata delusa. Dieci anni dopo l’atterraggio di Giulio Andreotti, un confidente ben informato ha svelato a un investigatore della squadra mobile di Trapani che all’aeroporto di Birgi i mafiosi del clan Minore non avevano alcun problema a muoversi, anche per i traffici di droga. La notizia – così risulta dagli atti dell’inchiesta Rostagno – fu subito girata al ministero dell’Interno.

«È venuto il momento – sostiene Giuseppe Lumia, capogruppo dei Ds in commissione Antimafia – che sulle carte di Gladio, conservate in vari archivi, venga tolto il segreto. Solo così si potrà iniziare a scoprire la verità sulle deviazioni dei servizi segreti in Sicilia».

La provincia trapanese di Cosa nostra rimane al centro di misteriosi intrecci che ne fanno un modello criminale unico. L’ultimo pentito di mafia, Antonino Giuffrè, fino al 2002 autorevole componente della Cupola di Bernardo Provenzano, ha spiegato: «Allo stato attuale Trapani e in particolare il paese di Castellammare del Golfo rappresentano una delle zone più forti della mafia, non solo perché la meno colpita dalle forze dell’ordine ma soprattutto perché punto di riferimento non solo di traffici normali, come droga e armi, ma anche luogo dove si incontrano alcune componenti che girano attorno alla mafia. È un punto di incontro della massoneria, ma anche per i servizi segreti deviati». L’analisi ha finito per interessare gli investigatori dell’Fbi e i procuratori distrettuali di New York che stanno analizzando i nuovi rapporti fra Cosa nostra siciliana e americana. Nuovi ma in realtà vecchi rapporti. «Questa situazione può risultare particolarmente pericolosa per gli Stati Uniti – ha avvertito il pentito durante l’interrogatorio del 5 febbraio 2003 – in modo particolare per i rapporti con il mondo arabo». Quando gli investigatori dell’Fbi hanno chiesto chi reggesse le fila di questo nuovo modello di mafia, l’ex boss della Cupola ha avuto ben pochi dubbi: «È il latitante Matteo Messina Denaro, il pupillo di Salvatore Riina. La sua impostazione è quella tradizionale: Cosa nostra non chiude le porte a nessuno. Ecco perché posso dire serenamente che vi sono relazioni fra la mafia e i terroristi del mondo arabo. Quando gli interessi dei mafiosi convergono, vengono fatte le alleanze». Nell’interrogatorio, Giuffrè ricordò i «vecchi discorsi» con il padre di Matteo Messina Denaro, Francesco: «Lui ad esempio aveva contatti con la Tunisia. Dovete considerare che nel momento in cui la mafia tratta, non è una associazione politica, tratta affari, tratta droga, tratta armi, ha nelle mani tutte quelle cose illegali che passano dietro le quinte, lì dove ci sono persone che sono state nei servizi segreti, e alcuni di loro, anche in contatto con frange estremiste e terroristiche. Accade così per alcuni rapporti con la Libia».

Per questo Matteo Messina Denaro si è guadagnato presto l’appellativo di ministro degli Esteri di Cosa nostra. Con un riconoscimento pressoché unanime: «Ci fu un tempo – ha spiegato ancora Giuffrè – che i capi della famiglia newyorkese dei Bonanno mandavano i picciotti in Sicilia, per essere formati, per diventare veri uomini d’onore. Oggi purtroppo in America non c’è quell’attaccamento a certi valori… non c’è più rispetto».

Giuffrè, come ogni ex padrino di rango, ha un modo tutto suo di raccontare le cose di mafia. I toni pittoreschi sono scontati, ma rendono bene il punto di vista dei capimafia: «Grazie agli insegnamenti che ho avuto da Francesco Messina Denaro ho aperto gli occhi, ho capito tante cose che di solito non vengono dette verbalmente, ma solo con un sorriso, uno sguardo, un gesto». Il padre di Matteo è già entrato nella leggenda dell’onorata società: ha trascorso una vita da illustre sconosciuto, poi in vecchiaia è stato costretto alla latitanza, ma con tutti i confort, persino la pensione dell’Inps da un milione e duecentomila lire, riscossa da un congiunto.

Il padrino di Trapani ha beffato lo Stato anche da morto: l’1 dicembre del ‘98 il suo cadavere è stato trovato dalla polizia nelle campagne di Mazara del Vallo, sistemato sulla nuda terra, con le mani giunte, vestito di tutto punto. Era morto nel suo letto, a 78 anni, i suoi familiari avevano voluto che ritornasse simbolicamente alla terra, lì dove aveva costruito un’intera esistenza.

Aveva iniziato come semplice campiere: fra quelle terre aveva conosciuto la mafia dei corleonesi, che all’epoca, negli anni Sessanta, si cimentava con il più irriverente degli sgarbi al potere costituito, il sequestro di Luigi Corleo, il suocero di Nino Salvo, l’esattore di Salemi che ha segnato un’epoca di rapporti fra boss e uomini politici. Quel sequestro fu lo spartiacque fra la vecchia e la nuova mafia. Messina Denaro scelse naturalmente di stare dalla parte dei nuovi padroni, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Intanto, continuava ad essere un perfetto sconosciuto per la giustizia e diventò fattore della famiglia D’Alì, attività che ha ereditato il figlio. «Li licenziammo quando abbiamo appreso dai giornali che erano coinvolti in fatti di mafia», ha spiegato ai giudici il professore Giacomo D’Alì, cugino del senatore Antonio D’Alì, sottosegretario all’Interno del governo Berlusconi.

Francesco Messina Denaro era ormai un fascicolo chiuso per la giustizia. Ma il funerale da latitante non è stata l’ultima beffa allo Stato: il giorno dopo, suo figlio Matteo, all’epoca già ricercato da 5 anni, affidò il suo necrologio ai giornali siciliani. Suo padre non era stato solo un anonimo fattore della provincia siciliana. Il contadino aveva fatto tesoro dell’unica vera risorsa dei suoi tempi, l’emigrazione, aveva intessuto una fitta rete di rapporti che andavano dall’America al Nord Africa al Medio Oriente. Da Trapani partivano i siciliani, ma a Trapani, crocevia del Mediterraneo, passavano persone di molte nazionalità.

Tutto questo ha ereditato il giovane Matteo. Certo lui non ha vissuto i sacrifici della terra. È mafioso di altra generazione, è soprattutto un gran viveur. A Castelvetrano, nella provincia trapanese, se lo ricordano ancora mentre scorazzava in Porche verso il lido di Marina di Selunte. Pantaloni Versace, Rolex Daytona, foulard: i pentiti raccontano delle belle ragazze che ha sempre al fianco nonostante sia ormai un ricercato d’eccezione.

A Sonia M. il giovane padrino scriveva: «Devo andare via, non posso spiegarti le ragioni della mia scelta. In questo momento le cose depongono contro di me, sto combattendo per una causa che non può essere capita. Ma un giorno si saprà chi stava dalla parte della ragione». Maria M. gli faceva avere un suo bigliettino: «Ti prego non dirmi di no. Desidero tanto farti un regalo. Sai, ho letto sulla rivista dei videogiochi che è uscita la cassetta di Donkey Kong 3, e non vedo l’ora che sia in commercio per comprartela… Sei la cosa più bella che ci sia».

Toni molto differenti da quelli austeri di don Bernardo Provenzano. Il ragazzo è esuberante. Si è già guadagnato un posto di riguardo nel folclore mafioso del nuovo Millennio: quando Riina lo incaricò di pedinare Falcone, Martelli e Maurizio Costanzo a Roma, a fine ’91, lui trovava sempre il tempo di fare una buona scorta di camice nel negozio più esclusivo di via Condotti e andava a mangiare nel locale più caratteristico del centro città. Confuso fra la bella gente. Lui che la faccia da vecchio mafioso siciliano non ce l’ha proprio.

Per comprendere il modello Messina Denaro bisogna però spingersi oltre l’effimero. Il vero potere di questo rampante quarantaduenne è nei segreti di cui è depositario. Il padre Francesco gli ha consegnato un archivio di ben avviati contatti affaristici. Così sostengono i pentiti che un tempo gli erano vicini. È la vocazione ai rapporti internazionali che differenzia la mafia trapanese dalle altre; per il resto, il carisma del clan è lo stesso di sempre, quello degli affari tradizionali legati al territorio (dalle estorsioni alla manipolazione degli appalti).

Il patrimonio dei segreti di Matteo Messina Denaro resta unico nel panorama mafioso. Sono stati i “vecchi” di Cosa nostra, Totò Riina e Leoluca Bagarella, ad affidargli il più importante archivio della mafia siciliana: è quello che fu portato in tutta fretta dalla casa covo di Totò Riina, qualche ora dopo l’arresto del padrino, il 15 gennaio 1993. La mancata sorveglianza dell’immobile da parte dei carabinieri del Ros è al centro del processo che si sta per aprire a Palermo, nei confronti del generale Mario Mori, oggi direttore del Sisde, e del tenente colonnello Sergio De Caprio, il capitano «Ultimo», a capo della squadra che arrestò Riina: sono imputati di favoreggiamento. È stato ancora il pentito Giuffrè a svelare di recente: «Messina Denaro era il gioiello di Riina, è lui il depositario del suo archivio».

Dunque, non a caso, il boss trapanese fu uno dei primi a essere messo a conoscenza della stagione stragista che stava per aprirsi nel ’92: fu Messina Denaro ad avere il delicato incarico di procurare l’esplosivo che sarebbe servito per la trattativa a suon di bombe che Riina aveva in mente. Eppure nel ’91, Messina Denaro era ancora un perfetto sconosciuto per la giustizia, nessun pentito aveva parlato di lui. Il giovane padrino restava un uomo d’onore incaricato delle missioni più riservate. Nel luglio ’92, pochi giorni prima della strage Borsellino, ci fu urgenza di assassinare il boss trapanese Vincenzo Milazzo e la sua compagna, Antonella Bonomo, che era incinta: furono strangolati e i loro cadaveri nascosti. «Erano contrari alla strategia stragista di Riina», hanno spifferato le confidenze. Il pentito Gioacchino La Barbera ha svelato il vero particolare importante: «Fu uccisa anche la donna perché avevamo paura che potesse raccontare quanto gli aveva confidato Milazzo. Lei aveva un parente nei servizi segreti».

È solo una delle missioni riservate che hanno costellato l’ascesa di Matteo Messina Denaro. Nel ’93, già latitante, era ormai fra i registi della nuova strategia stragista fra Roma, Milano e Firenze. «Voleva destabilizzare lo Stato – hanno raccontato i pentiti – cercando di costringere le istituzioni a scendere a patti». Poi, all’improvviso, le bombe cessarono e Messina Denaro meditò con Bagarella che era meglio seguire un’altra strada di trattativa. È questo un altro dei gialli di quella stagione: “Sicilia Libera”, movimento politico dalle tante velleità. Messina Denaro vagliò sino in fondo le strade possibili della politica, chiese udienza persino a un vecchio padrino in ottimi contatti con Cosa nostra americana, Rosario Naimo: «Sondò la possibilità di un appoggio americano ad un progetto separatista della Sicilia, con conseguente annessione agli Stati Uniti», ha raccontato il pentito Vincenzo Sinacori, un tempo vicinissimo a Messina Denaro. Ma Naimo fece sapere che il progetto era assolutamente «fuori tempo». Archiviata l’idea separatista, i vertici mafiosi ritennero più utile sostenere il progetto della nascente Forza Italia. Le rivelazioni dei pentiti hanno trovato suggello nella sentenza che ha condannato il senatore Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa.

«Una caratteristica di Cosa nostra trapanese – ha scritto il prefetto Giovanni Finazzo in occasione dell’ultima visita della commissione parlamentare Antimafia nell’ottobre 2004 – è stata l’aver preferito nell’ultimo decennio ai canali di riciclaggio proprio e cioè scaturente da attività illecite, l’infiltrazione massiccia nelle medie e grandi attività produttive e il mantenimento di canali diretti ed indiretti con gli ambienti della politica locale e delle pubbliche istituzioni». È questo il volto della Cosa nostra più moderna, alla ricerca di una via verso la legalizzazione. Trapani si è dimostrata la piazza giusta: poco importa che abbia un tasso di disoccupazione pari al venti per cento, è la provincia che continua ad avere un numero di sportelli bancari da record, ben 177, una media di 0,4 ogni mille abitanti. Fu così che a Trapani, già vent’anni fa, il laboratorio di Messina Denaro e di Provenzano sperimentò con successo nuovi investimenti imprenditoriali nel settore dell’ambiente e della gestione dei rifiuti. Forse è proprio per quella voglia di «legalizzazione» che Cosa nostra trapanese ha frequentato da sempre le stanze della particolarissima camera di compensazione che è la massoneria. «L’associazione massonica, con riferimento a quella deviata – ha scritto ancora il prefetto di Trapani – per la sua struttura organizzativa, ha rappresentato talvolta uno dei momenti privilegiati di incontro, dialogo e integrazione tra la criminalità mafiosa e gli ambienti politico-istituzionali in grado di favorire Cosa nostra nel raggiungimento dei suoi obiettivi». Le prime indagini su quei rapporti sono state proprio a Trapani: a metà degli anni Ottanta, la magistratura scoprì che dietro il paravento del centro «Scontrino» operava una loggia coperta, la Iside 2, «i cui componenti – spiega la relazione della prefettura – non erano noti agli appartenenti alle logge ufficiali ma avevano contatti con una loggia similare, ovvero coperta, facente capo al noto commercialista di Riina Giuseppe Mandatari (condannato dai giudici di Palermo)». Da un lato alcuni personaggi insospettabili della Trapani bene, dall’altra mafiosi del calibro di Mariano Agate, Antonio Melodia, Giovanni Calabrò e Natale L’Ala. L’ex parlamentare regionale Francesco Canino, leader storico della Dc siciliana, finì sotto inchiesta ma il reato fu spazzato dall’amnistia. Il politico è voluto andare avanti nel processo e la corte di appello di Palermo lo ha prosciolto «per non aver commesso il fatto». Nel 1998, poi, le indagini della Direzione distrettuale antimafia di Palermo hanno portato in carcere Canino, con l’accusa di collusioni mafiose.

Magistratura e investigatori stanno cercando di colmare velocemente i vuoti nelle indagini. Ma più di una volta si sono imbattuti in quelle domande a cui non sanno rispondere neanche i collaboratori di giustizia più informati. Sono più che singoli episodi da chiarire, sono paradigmi di un modello di mafia ancora da svelare. Richiamano quell’orizzonte di complicità eccellenti su cui una lunga stagione di inchieste e processi non è ancora riuscita ad approdare, se non marginalmente.

Ecco il primo mistero: al processo per la strage Borsellino, il pentito Giovan Battista Ferrante ha raccontato di avere assistito a un dialogo fra Totò Riina e Matteo Messina Denaro: «I massoni vosiru ca si fici chistu», i massoni vollero questo, le stragi. Così disse Riina al suo pupillo. Quando i pubblici ministeri Nino Di Matteo e Annamaria Palma chiesero al pentito il senso di quella confidenza, lui rispose: «Se fosse stato solo per Riina, forse le stragi non si sarebbero fatte».

Nei mesi degli eccidi Falcone e Borsellino, il gruppo di Trapani restò apparentemente in seconda fila. Ma alcune indagini sollecitano approfondimenti, che fino ad oggi, però, non sono decollati.

Ecco il secondo mistero: nei giorni precedenti la strage Borsellino, uno dei cellulari clonati utilizzati dai capimafia di Castellammare del Golfo (ricordate le parole di Giuffrè), lo 0337/863695, intestato ad Antonietta Castellone, è in contatto con un ospite del più esclusivo albergo di Palermo, Villa Igiea.

I tabulati della Telecom dicono della spiccata vocazione manageriale di quei boss diretti sul campo da un mafioso di prima grandezza come Gioacchino Calabrò: quel cellulare clonato resta in funzione dal 21 ottobre del ‘91 al febbraio del ‘93. Sono 2845 i contatti che i magistrati di Palermo verificano fra la Sicilia e gli Stati Uniti, la Germania, Malta e Slovenia. In fondo non c’è da meravigliarsi: già due sentenze hanno accertato il coinvolgimento del gruppo di Castellammare nel traffico internazionale d’armi.

Il telefonino con il numero clonato di Antonietta Castellone fa la sua comparsa il 15 febbraio del ‘93, nel corso di un blitz che porta all’arresto di quattro latitanti a Calatafimi, altro centro della provincia di Trapani (Antonino Alcamo, Vincenzo Melodia, Vito Orazio Diliberto e Pietro Interdonato). Probabilmente, si convincono gli inquirenti, non è l’unico apparecchio a funzionare con il medesimo numero. Di certo, di quella clonazione beneficiavano uomini d’onore del trapanese.

Il consulente dei pubblici ministeri, Gioacchino Genchi, incrocia i numeri del lungo tabulato fornito dalla Telecom e si sofferma sul mese di luglio. Il 12, dal cellulare denominato ormai in codice “Castellone” viene chiamata Villa Igiea. Così anche nei giorni successivi, fino al 17 luglio. Sono i giorni in cui Gioacchino Calabrò e Messina Denaro uccidevano il capomafia “ribelle” di Alcamo, Vincenzo Milazzo, e la sua compagna sospettata di essere in contatto con un agente dei servizi segreti. Sono i giorni in cui altri boss organizzavano la strage Borsellino. Ufficialmente Calabrò e i suoi non sono mai stati indagati per l’eccidio di via d’Amelio. Dunque nessun elemento a carico dei trapanesi, sul cui conto si indagò anche alla ricerca di tracce che portassero al deposito del Semtex, il micidiale esplosivo di provenienza bellica, utilizzato per assassinare Paolo Borsellino e la sua scorta. E’ rimasta solo una coincidenza: il cellulare clonato, sempre così attivo, interrompe di colpo i suoi contatti il pomeriggio della strage di via D’Amelio, tra le 14.19, ora dell’ultima telefonata con destinazione Germania e le 19.43.

Nei giorni successivi, il 21 luglio, alle 8.46, viene composta un’utenza di Roma, intestata a un pregiudicato che gli inquirenti hanno incontrato più volte nel sottobosco dei servizi segreti deviati. La signora Castellone, che non abita in Sicilia, è caduta dalla nuvole quando le hanno chiesto conto di tutte quelle telefonate. Naturalmente, non le aveva fatte lei, che non conosce proprio nessuno in America: e invece il tuo telefonino aveva chiamato più volte il numero 0014166648573.

L’ulteriore significativo giallo (e il più recente) attorno alla mafia trapanese corre ancora lungo il telefono: da una parte della cornetta, il narcotrafficante trapanese Vito Bigione, arrestato l’anno scorso in Venezuela dopo una caccia partita dallo stato africano della Namibia; dall’altra parte c’era un insospettabile imprenditore italiano che opera nel settore dell’import-export in Sudafrica. Era quest’ultimo a tenere i contatti con un altro italiano residente in Sudafrica, poi risultato essere un agente dei servizi segreti italiani. Dalle intercettazioni è emerso che lo 007 italiano stava spingendo perché l’imprenditore fosse nominato console onorario di un paese europeo in Namibia, per poi fornire passaporti con false identità ad alcuni latitanti, e fra questi Vito Bigione. Quando i magistrati palermitani sono andati a Roma, per chiedere conto di quegli strani contatti, improvvisamente gli interlocutori di quelle telefonate hanno troncato i rapporti. E Bigione ha lasciato la Namibia per il Venezuela.

Di quali contatti riservati godono i mafiosi trapanesi con la vocazione dei rapporti internazionali? E per quali affari o impegni? Matteo Messina Denaro continua la sua latitanza: l’ultima utile soffiata gli è arrivata dal maresciallo del Ros Giorgio Riolo tramite Michele Aiello, il magnate della sanità siciliana. Dopo il blitz della Procura di Palermo che ha portato in carcere il sottufficiale e l’imprenditore, è arrivata la confessione: «Ho rivelato – ha detto Riolo – che la telecamera era stata piazzata dai carabinieri a casa di un parente di Messina Denaro, a Castelvetrano». Per questo, la telecamera non aveva ripreso mai nulla.