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Strage di via D’Amelio i misteri dell’Utveggio

La deposizione del consulente Genchi rilancia i sospetti sul Sisde - Tutti gli indizi di una pista mai seguita

Repubblica - 25 maggio 2001 - di Enrico Bellavia

Misteri, silenzi e ipotesi intorno a due stragi. Il contesto che non c’è nei processi di Caltanissetta per gli eccidi Falcone e Borsellino è altro rispetto alla mafia. Altro rispetto ai boss e ai gregari che organizzarono e attuarono le stragi. La deposizione del vicequestore Gioacchino Genchi al processo bis d’appello per la strage di via D’Amelio disegna uno scenario e contribuisce forse a collocare alcune tessere in un mosaico che ha interi pezzi mancanti, nonostante gli sforzi coronati da successi giudiziari di perseguire i responsabili mafiosi. Da Genchi arrivano alcuni dati di fatto e una serie di dubbi. I fatti sono i tabulati telefonici che raccontano di strane telefonate. I dubbi sono legati al destino di quegli accertamenti, iniziati e lasciati a metà dopo il trasferimento del funzionario nel maggio del 1993. Pezzo per pezzo ecco una ricognizione sugli episodi riferiti in aula dal funzionario. Il biglietto sulla montagna. Fu trovato nei pressi della costruzione dalla quale Giovanni Brusca premette il telecomando della bomba di Capaci. «Nel bigliettino — ha spiegato Genchi — c’era il numero di un soggetto che era nel Sisde il vice di Contrada». L’agenda di Falcone. Era un data bank con gli appunti del magistrato. Genchi lo esaminò e trovò la certezza che nel 1991, con Giannicola Sinisi, fosse andato a incontrare Gaspare Mutolo nel carcere di Spoleto. Al deposito di quella relazione Genchi fa risalire la sua estromissione dalle indagini. Qualcuno «dell’ufficio» lo avrebbe indotto a non depositare i risultati. Anche Borsellino da Mutolo. Il giudice interrogò il pentito dopo la morte di Falcone. Poi avrebbe incontrato sia l’allora capo della polizia Parisi che il ministro Mancino. Ma «un carabiniere della Dia — nota Genchi — riferisce che Borsellino era stravolto per due telefonate». Analizzando i dati di traffico, le due telefonate risultano dirette ai cellulari di Pierluigi Vigna e di Gianni Tinebra. I telefonini clonati. Gli stragisti avrebbero utilizzato un lotto di Nec P 300 clonati. I pentiti dicono che i telefonini li ebbero nel 1993. Gli apparecchi risultano però in attività a partire dal 1991. «Le utenze potevano essere state clonate o da Cosa nostra o da altri soggetti che possono aver utilizzato volutamente gli stessi metodi di Cosa nostra». Le telefonate ai numeri del Cerisdi. Due le chiamate interessanti: una è del 1992 ed è di Gaetano Scotto, latitante, condannato all’ergastolo per la strage Borsellino. Scotto, con un passato di contatti con esponenti dell’eversione nera e in attività anche in Emilia Romagna, è fratello di Pietro. Quest’ultimo, tecnico telefonico di una società privata, fu sospettato e poi scagionato dall’accusa di avere intercettato il telefono di casa della madre di Paolo Borsellino. L’altra, del 1991, è quella di Gaetano Scaduto, killer bagherese, responsabile dell’omicidio di Ignazio Salvo. Le altre telefonate. Sono dirette a utenze di villini di Villagrazia di Carini, lungo il tragitto che Paolo Borsellino seguì tornando a Palermo la domenica in cui fu ucciso. Incrociando i dati telefonici risultano chiamate anche a Villa Igiea, dove, secondo dati investigativi, c’erano latitanti. A chiamare uno dei cellulari clonati del gruppo di Gioacchino Calabrò, boss di Castellamare. La base degli attentatori. Si ipotizzò «subito» che gli attentatori di via D’Amelio avessero operato da una postazione sopraelevata, come per Capaci. Dal castello Utveggio, appunto. Lì, secondo il funzionario, erano state sistemate anche delle apparecchiature da parte della stessa società per cui lavorava Scotto. La replica di Bruno Contrada. Sentitosi chiamare in causa l’ ex dirigente del Sisde ha chiarito: «Dal dicembre ‘91 al settembre ‘93 il capo del Centro Sisde di Palermo è stato il colonnello dei carabinieri Andrea Ruggeri, di Torino, in ottimi rapporti con l’ex procuratore Gian Carlo Caselli. Genchi — ha aggiunto Contrada — dovrebbe sapere che un ufficiale di polizia giudiziaria che depone deve portare prove e non ipotesi. Le ipotesi si fanno in altre sedi di lavoro».