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Sul cadavere di Paolo Borsellino si consuma lo scontro tra il governo di Giorgia Meloni e la magistratura siciliana, incapace di scovare la verità sulla morte del giudice saltato in aria in Via D’Amelio il 19 luglio del 1992. «Un fatto intollerabile», tuona il presidente del Tribunale di Marsala Vito Marcello Saladino alla commemorazione. «Ci fu un’unica strategia non solo opera di Cosa Nostra. Dopo 31 anni verità e giustizia», chiede su Twitter il responsabile Informazione del Pd Sandro Ruotolo.
Verità, certo. Ma a chi? Alla Meloni appena quindicenne nel 1992, che sulle lamiere fumanti dell’auto del giudice simpatizzante missino giurò la sua guerra alla mafia? O agli ex magistrati che oggi siedono di fianco a Ruotolo? Se la magistratura appare compatta con la donazione alla Fondazione di tutte le correnti dell’Anm (Area, Md, Magistratura indipendente, Movimento per la Giustizia e Unicost), chi ha appeso da poco la toga al chiodo profana la ricorrenza per lanciare pizzini e sospetti. L’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris si schiera con Salvatore Borsellino nella caccia all’agenda rossa sparita da Via D’Amelio, Piero Grasso difende l’inchiesta della Procura di Firenze che vorrebbe Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri mandanti delle stragi, ipotesi già fatta a brandelli da tre archiviazioni: «Quando i pm toccano i politici diventano scomodi», blatera l’ex presidente del Senato. Ma Grasso non aveva detto che le uniche vere leggi contro Cosa nostra le aveva firmate il Cavaliere? Altri tempi, altre convenienze.
«Nessuno sa perché si decise di dare una falsa rappresentazione di via D’Amelio né come ricostruire il biennio che si chiuse con il mancato attentato all’Olimpico di Roma del 1993», si chiede giustamente Luigi Marattin di Italia Viva. Citofonare Antonino Di Matteo, il pm che si bevve le panzane del finto pentito Vincenzo Scarantino (manipolato dall’ex prefetto Arnaldo La Barbera) tanto da fare appello contro la sentenza che sanciva la sua estraneità. Lo stesso Di Matteo che avrebbe convinto i pm di Firenze a seguire la pista di Salvatore Baiardo, manutengolo della famiglia Graviano che vagheggia di pizzini e fantomatiche foto su Tik Tok. Ipotesi a cui non hanno mai creduto il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia e Paolo Guido, autori dell’arresto di Matteo Messina Denaro, condannato ieri in appello all’ergastolo.
«La lotta ai clan è fatta di scelte e azioni nette, non di vuote frasi di circostanza da declamare il giorno giusto», dice Giuseppe Conte, il cui pasticcio sui crediti fiscali legati ai bonus edilizi hanno fatto ricche le mafie. «C’è una politica smemorata, revisionista che rischia di garantire la borghesia mafiosa», attacca don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. «Grazie a un’incredibile sequenza di depistaggi siamo lontani da una verità deflagrante sulle connessioni tra servizi deviati, destra eversiva, massoneria e mafie» è il messaggio in coro della delegazione parlamentare M5s, guidata dagli ex magistrati Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato. Quest’ultimo mise la parola fine sulle indagini «Mafia-Appalti» tanto care a Borsellino e fu autore dell’inchiesta «Sistemi criminali», basata sulle stesse suggestioni e archiviata perché inconsistente. Se questo è un omaggio, meglio il silenzio via social di Gioacchino Genchi, storico collaboratore di Giovanni Falcone, che lasciò le indagini su Capaci e Via D’Amelio nel maggio del 1993 dopo uno scontro con La Barbera. La memoria è un esercizio difficile ma doveroso.
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