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In via D’Amelio, in quell’inferno, vide movimenti strani o persone sospette? Mi riferisco alla vicenda dell’agenda “rossa”, scomparsa nel nulla e mai più ritrovata, su cui Borsellino annotava tutto.
Borsellino annotava tutto quello che stava facendo, stava sentendo Gaspare Mutolo che ha parlato di Contrada, che ha parlato di Signorino. Contrada è stato condannato, Signorino dopo che l’abbiamo interrogato a Caltanissetta si è suicidato. Questo già la dice lunga. Io sono arrivato quando già l’agenda rossa era già scomparsa, è stata repertata una borsa dove c’era l’agenda, che era integra. La borsa in pelle di Paolo Borsellino. Dentro addirittura c’era un costume in nylon che indossava poco prima e che era altamente infiammabile, e che si sarebbe infiammato ancora prima dell’agenda. E c’era la batteria del cellulare Motorola, che è questa che le sto mostrando, che è ancora annerita dal fumo, dallo scoppio. Questa batteria era integra dentro la borsa, come lo era il costume e come lo era la borsa. L’agenda era dentro la borsa, la batteria è rimasta, il costume pure, l’agenda è sparita. Quell’agenda rappresenta la scatola nera della seconda repubblica, partendo da quell’agenda si può capire chi voleva fermare Borsellino a Roma, l’incontro al Ministero dell’Interno organizzato da Parisi. Io ho dimostrato con i tabulati che Contrada era a Roma quel giorno, e questa è una circostanza che non era mai emersa prima d’ora. E questo segue quel cambio di rotta al Viminale, che segue le elezioni dell’aprile del 1992, quando c’è una svolta nella lotta alla mafia, con due alternanze: Rognoni, l’ingresso di Mancino al Ministero degli Interno e la messa da parte di Scotti. Scotti che aveva fatto tantissimo nella lotta alla mafia, che era stato uno dei promotori di quel famoso decreto di cattura nel ‘91, quando la Cassazione aveva messo fuori i boss mafiosi con una scusa e che furono riportati in carcere con un provvedimento del governo che aveva fatto e aveva dato ausilio a Falcone affinché potesse attuare, con Martelli, quella famosa rotazione, chiedendo al Presidente della Cassazione Brancaccio, attraverso il monitoraggio delle sentenze, che poi io ho trovato nel computer di Falcone, la rotazione nell’assegnazione dei processi, che salvò il Maxiprocesso e che decretò la morte di Falcone.
E Scotti doveva uscire dal Ministero dell’Interno, perché c’era qualcosa che era cambiato nel rapporto tra la politica e la mafia. E Scotti dovette pure uscire dal Governo perché, pur essendo nominato Ministro degli Esteri in quel gabinetto in cui Mancino era andato a sostituirlo all’Interno, con una scusa qualche settimana dopo la strage di Via D’Amelio si dovette dimettere pure da Ministro degli Esteri. Questi sono i segni evidenti di come la politica abbia agito in perfetto raccordo con quelle che sono state le trattative con gli elementi stragisti di Cosa Nostra. Forse l’hanno fatto per paura, forse l’hanno fatto per codardia, forse l’hanno fatto per ambizione. Non lo so. Io non voglio avanzare elementi di colpevolezza o di rilevanza di questi fatti su un piano giudiziario, posto che saranno i magistrati a doverlo accertare. Io posso solo dirle che sul piano politico, quella classe dirigente, che si è perpetuata in questo sistema, e che ha fatto parte di quella che oggi vuole accreditarsi come la sinistra del rinnovamento di cui lo stesso Mancino faceva parte. Lo stesso Mancino che io ho poi rincontrato al Consiglio Superiore della Magistratura nella vicenda “Why Not?” e nella vicenda di Salerno, in cui non mi faccio certo prendere dagli atteggiamenti trionfalistici di De Magistris, che ha fatto una marea di errori ma è una gran persona perbene. Una persona onesta che forse, l’unica cosa di cui avrebbe bisogno, è un bel bagno d’umiltà.
Torniamo a via D’Amelio. Anche in questo caso fu incaricato di indagare sulla strage e fu lei a scoprire che il telefono della madre di Borsellino era stato intercettato, abusivamente, del resto era l’unico modo per capire quando il giudice si sarebbe recato a trovarla.
Sì, questo è un elemento di partenza, come lo sono una serie di dati che riguardano i contatti telefonici di Borsellino, quello che Borsellino stava facendo, perché quello che ancora qualcuno non vuole capire è che quella strage deve essere cercata in quel che Borsellino stava facendo in quel momento, in quello che si voleva impedire che Borsellino facesse. E’ inutile andare a cercare sulla Luna o su Marte le causali di una strage. Una persona viene uccisa in quel modo e con quella accelerazione che viene dimostrata, sono elementi incontrovertibili. E in quel contesto io mi opposi decisamente a dei “farlocchi” che stavano entrando nell’indagine. Candura e Valenti, che interrogammo per primi con il magistrato Petralia, che capì perfettamente la delicatezza di quelle assunzioni testimoniali e di quanto banale era il quadro indiziario dove veniva a profilarsi, con dei soggetti totalmente inaffidabili che si assumevano il ruolo di referenti di Cosa Nostra. Persone totalmente inaffidabili, come Scarantino, a cui io non ho creduto e ho messo per iscritto queste cose. C’è una mia lettera del 7 Dicembre 1992 al Questore di Palermo Matteo Cinque, questore insufficiente pure nel cognome, che è la cartina tornasole di come in effetti io denunciai, sin da allora, quelli che erano stati gli errori d’impostazione in un sistema che voleva solo creare a tutti i costi dei colpevoli per addebitare alla mafia quella strage. La mafia, che certamente aveva avuto un ruolo ma che non era esclusivo della mafia. E questo avviene dopo la decodifica di quel databank di Falcone che io avevo eseguito qualche settimana prima. E quando tornai con la decodifica e trovai i contatti di Falcone con uomini della politica, il viaggio negli Stati Uniti e altri elementi nel databank cancellato, fui trasferito. Da che dirigevo due uffici, con la lettera di Parisi, io fui trasferito al Reparto Mobile e il mio incarico più importante fu quello di andare a fare ordine pubblico allo stadio la domenica pomeriggio. Questo per dire quello che è stato lo Stato di quel Ministro dell’Interno, che si chiama Nicola Mancino, che decapitò la Squadra Mobile trasferendo La Barbera e costrinse i magistrati di Caltanisetta alla creazione del famoso gruppo d’indagine Falcone–Borsellino. Salvo poi la piega che prese La Barbera, con la promessa di diventare questore. Abortì tutto basandosi su Scarantino.
Parliamo del monte che sovrasta Palermo e in particolare via d’Amelio, il monte Pellegrino, secondo lei è proprio da lì che partì l’impulso che azionò l’autobomba?
Questo non l’ho mai detto. Il castello Utveggio era un’ipotesi di lavoro, che diventa importante solo nella misura in cui tanti cercano di smentirla o hanno cercato di smentirla sin dal primo momento. Una cosa è certa: l’impulso è partito da chi aveva la perfetta visione del luogo della strage. Quindi bisogna cercare un luogo distante da Via D’Amelio, perché se fosse stato in Via D’Amelio sarebbe stato travolto dall’esplosione, da cui è stato azionato il congegno. Quella era un’ipotesi di lavoro come tante. Scartare questa ipotesi di lavoro nel nome di altre ipotesi mi sembra qualcosa di sbagliato come quella di volerla accreditare a tutti i costi, che è una cosa che io non ho mai fatto. Questa storiella o questo luogo comune del castello dimostra certamente che là c’erano delle entità che venivano dall’Alto Commissariato per la lotta alla mafia, persone che avevano lavorato con Contrada, che erano amici di Contrada, ci sono dei contatti telefonici di persone che sono state condannate con sentenza definitiva per quelle stragi, mi riferisco a Scotto, ci sono dei contatti con un altro boss di Bagheria, Scaduto, che chiamava il castello di Utvegio, che doveva essere un centro per eccellenze e mi pare che costoro non erano certo delle eccellenze.
Se lor signori mi spiegano il perché di queste chiamate, mi spiegano cosa facessero quelle persone là, e spiegano perché quando sono iniziate le indagini queste persone sono scappate, se ne sono andate e hanno chiuso questa struttura, probabilmente è un punto di partenza per mettere la parola fine a questa vicenda, a questa storiella del castello Utvegio. Quello che è certo è che in quella strage ci sono dei mandanti esterni, ci sono esecutori esterni che non hanno niente a che vedere con Cosa Nostra, perché ci sono ormai dei pentiti di Cosa Nostra, trasversali, in tutte le famiglie, in tutte le direzioni, che hanno consentito di fare luce su tutti i delitti che sono avvenuti a Palermo. Eccetto due: la strage di Via D’Amelio e l’omicidio Agostino, insieme a quello di Emanuele Piazza. Tutto si riconnette a due episodi: l’attentato dell’Addaura e l’attentato di Via D’Amelio. E’ lì che casca l’asino, in quel 1989 in cui molti di quei signori, che in questo momento sono ai vertici della Polizia di Stato e dei Servizi di Sicurezza, probabilmente dovrebbero chiarire meglio qualche cosetta, di qualche mese precedente a quella strage. Ma questa è materia che vedremo e spero di campare per avere il tempo di poter vedere tutto questo film fino alla fine.
Parliamo degli attentati del ’93 (Roma, Milano e Firenze).
Sono l’escalation della strategia stragista. Strategia stragista a cui Riina non vuole aderire perché si rende conto dell’errore che ha fatto con Via D’Amelio. Riina che viene catturato nel gennaio del 1993 a cui segue la mancata perquisizione del covo, le mancate indagini, a cui segue quel Di Maggio che viene creato a posta per far catturare Riina e per poi portare al processo Andreotti. La polpetta avvelenata del famoso bacio con Riina, a cui solo i magistrati di Palermo hanno potuto credere. Andreotti, probabilmente non ha mai baciato nemmeno sua moglie, non c’è nessuna foto di Andreotti che bacia una persona, immaginiamoci se andava a baciarsi con Toto Riina. Toto Riina che per altro era quella persona che insieme ai corleonesi gli aveva ammazzato i suoi amici. Lo ha detto pure la Corte d’Appello con la sentenza con cui ha dichiarato la prescrizione del concorso in associazione a delinquere non di stampo mafioso, perché non c’era ancora il reato mafioso di Andreotti, era nella correlatività col gruppo mafioso che faceva capo a Stefano Bontade che era stato ammazzato da Riina.
Dopo l’omicidio Bontade, dopo l’omicidio Inzerillo, dopo la strage di Viale Lazio, gli amici di Andreotti in Sicilia, mi riferisco ai fratelli Salvo, scapparono e si fecero la macchina blindata. Quindi questo già ci dimostra come si tratta di due contingentamenti completamente diversi, quello che ha fatto Andreotti contro Riina e contro la mafia, quello che hanno fatti i governi presieduti da Andreotti, con Scotti di cui ho appena finito di parlare, non l’ha fatto nessuno. Quindi andare a ipotizzare un concorso di Andreotti con quei mafiosi è un assurdo.
E quindi è lì che bisogna andare a indagare nel fare i processi a Mori o alle altre cose. Cosa è accaduto con Di Maggio. Perché è tutto lì il problema, però siccome c’è qualcos’altro che è accaduto con Di Maggio, con il ritorno di Di Maggio a San Giuseppe Jato, e probabilmente di ritorni a Palermo ce ne sono due che si sono annullati: uno è il ritorno di Contorno nell’89 e l’altro è il ritorno di Di Maggio alcuni anni dopo. E hanno fatto il pareggio e purtroppo con il pareggio, uno a uno, non si è potuto assegnare la vittoria a nessuno, e nemmeno la sconfitta.
Secondo lei ci fu una trattativa tra lo Stato e la mafia?
C’è sempre stata una trattativa tra lo Stato e la mafia. Io non sono un mafiologo. Possiamo partire da Notarbartolo, possiamo partire dall’omicidio dell’investigatore americano a Piazza Marino, Joe Petrosino, possiamo partire dal Prefetto Mori. La storia del Prefetto Mori l’ho letta e l’ho studiata dall’inizio fino alla fine. Dalla nascita di Cesare Mori, quando viene trovato dietro un convento, fino a quando poi viene cacciato dalla Sicilia, viene fatto senatore, quando tocca i legami di quella mafia che era diventata regime, che aveva sposato l’abbraccio con quel regime che la voleva combattere. Perché il Fascismo, affermandosi come dittatura, non consentiva che potessero esistere altri poteri oltre se stesso. E quindi questo concetto di trattativa, questo concetto di mediazione, l’abbiamo sempre respirato e lo respiriamo tuttora, e ho sempre più paura della mafia che avanza. Una mafia che viene apparentemente sconfitta da uno Stato che celebra delle vittorie per celebrare se stesso, rinforzando altri referenti mafiosi che si dimostrano sempre più pericolosi, più cattivi e senza meno scrupoli dei precedenti che vengono sconfitti.
Fu lei a segnalare alla procura di Palermo il traffico telefonico di un cellulare, che era in uso a Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, cosa c’era in quei tabulati?
C’erano e ci sono degli elementi importanti che consentono di capire, di calmierare, di riscontrare sotto certi profili e sotto certi altri di ridimensionare le dichiarazioni di un soggetto che non doveva essere considerato un mito, un dio, un santo, ma che era il figlio di un criminale che era Don Vito Ciancimino. E quindi le dichiarazioni di Ciancimino sono importanti perché svelano dei raccordi, degli intrecci, dei rapporti importanti con apparati dello Stato. Però quando Ciancimino inizia a parlare di qualcuno che non deve essere toccato diventa poco affidabile, poco credibile o pericoloso. Io sono dell’avviso che mai bisogna sposare i pentiti, uno i fidanzamenti li deve fare fuori dall’ambito dei pentitismi.
Ritengo che Ciancimino, probabilmente, prima di accusare altri debba chiarire l’origine del suo patrimonio. Perché tutto quello che proviene da sua nonna, da suo nonno è giusto che gli rimanga. Ma tutto quello che proviene dall’attività del padre se non da attività esclusivamente illecite, io ritengo che lui le debba restituire allo Stato, che ne è il proprietario e il titolare. Per il resto le dichiarazioni di Ciancimino, secondo quanto ci ha insegnato Falcone, vanno lette, vagliate e riscontrate. Nei mie tabulati, che io feci acquisire alla Procura di Palermo moltissimi anni fa, ci sono dei riscontri ineguagliabili sui contatti di Ciancimino con apparati dello Stato, con la Presidenza della Consiglio, col Ministero dell’Interno, con apparati giudiziari in circostanze precise che riguardano anche la vicenda giudiziaria di suo padre: la storia del passaporto, i suoi rapporti con le istituzioni di cui poi ha riferito. Quindi basta leggere e incrociare le due cose, per capire quello che c’è di buono da prendere da Ciancimino e quello che probabilmente va solo scartato.
Nel suo libro, tra le tante cose che racconta, c’è un passaggio importante di quando indagò sulle stragi del ’92 al fianco di Arnaldo La Barbera. Furono le ultime indagini che lei ha compiuto da funzionario di Polizia. Cosa accadde? Eravate a un passo dalla verità o qualcuno vi fermò? Perché lei, in una notte molto agitata, abbandonò quegli uffici, abbandonò quella vita, per fare la vita che fa ore, il consulente dell’autorità giudiziaria.
Con La Barbera c’era un rapporto di amicizia, non c’era solo un rapporto professionale. Abbiamo quasi convissuto per cinque anni della mia vita, che sono stati anni difficili, travagliati. Ho pagato un prezzo personale, io e la mia famiglia, per quello che è stato l’impegno professionale al fianco di La Barbera, per far fare carriera, guarda caso, a tutti quelli che oggi sono ai vertici della Polizia e che hanno fatto carriera a Palermo e sui morti di Palermo. Perché se lei considera Manganelli, De Gennaro, Pansa e tutti gli altri, guardando a tutto quello che hanno fatto nella vita, veda Pansa a Napoli, veda Manganelli a Catanzaro, quando si è occupato di un’altra vicenda a Lamezia Terme o il G8 o altre cose di questo genere. Mi pare non abbiano fatto nulla di interessante o di buono, anzi. Quello che hanno fatto a Palermo ha comportato per loro grande successo e grande carriera. Io sono stato un tassello di quel mosaico che ha fatto il suo lavoro, facendo catturare e contribuendo alla cattura di latitanti importanti da Vernengo, l’arresto di latitanti come Salerno, Drago, cioè persone che magari oggi non dicono nulla, però le assicurano erano dei personaggi assolutamente pericolosi che sono stati catturati con delle indagini tecniche, con delle indagini fatte a tavolino in maniera scientifica.
E quando capii che La Barbera aveva ceduto all’invito di appiattire quell’indagine su Via D’Amelio sui soliti mafiosi, utilizzando un personaggio “farlocco” com’era Scarantino, e stava abortendo l’ipotesi dei mandanti esterni, per cui quel gruppo era stato creato, dopo che lui stesso era stato trasferito a fine dicembre per volontà di Mancino al Ministero dell’Interno, quindi togliendogli assolutamente tutte le funzioni dopo che erano state tolte a me. Quando capii sostanzialmente di essere stato tradito da La Barbera sbattei la porta e andai via. C’è una lettera che uscirà, e sarà pubblicata, che i due magistrati titolari dell’indagine, Ilda Boccassini e Fausto Cardella, scrivono, è una riservata, al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta su quella vicenda. E quella lettera è fortunatamente la mia assicurazione sulla vita, perché dimostra qual è stata la correttezza del mio operato. E per tutto questo ci sono voluti diciotto anni, per accertare tutto questo. E quando è stato accertato la risposta della Polizia di Stato e di Manganelli è stata quella di destituirmi. Probabilmente gli è stato utile quello che gli ha chiesto Berlusconi, ma non penso che sia stato solo Berlusconi l’autore della mia destituzione dal servizio della Polizia.
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