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I soprano di Partinico

Quattro fratelli mafiosi e una sorella che si pente e li accusa. Delitti, amori e corna di una dinasty che sembra fatta per la tv

Il Foglio - 1 ottobre 2005 - di Riccardo Arena

giusi-vitaleI Soprano di Partinico sono meno noti e meno eccellenti dei loro omologhi italoamericani del famoso serial televisivo made in Usa. I Soprano di Partinico, provincia di Palermo, a una quarantina di chilometri dal capoluogo siciliano, si chiamano in realtà Vitale e di soprannome, anziché ‘nciuria, come si dice nello slang locale, fanno Fardazza. I Vitale-Fardazza, che significa toppa, rammendo, nel senso di cosa che ha scarso pregio e valore nullo, sono un gruppo familiare molto solidale e sempre molto unito. Infatti per adesso stanno tutti in galera: si salva solo la vecchia madre, ma pure lei ha una condannina, che non sconta solamente per motivi di età e perché ancora la sentenza non è diventata definitiva. Tra poco, poi, saranno processati tutti assieme: riunione di famiglia al Palazzo di Giustizia, fratelli, sorelle, parenti, zii e cugini, chi per un reato, chi per un altro. Sono una dinastia, i Vitale, una sorta di vera e propria dinasty da Sing Sing, che ondeggia tra abitudini da viddani e amori caratterizzati da una sensualità caliente, tutta sicula, vissuti tra passioni irrefrenabili e spesso fatali, fra tradimenti e abbandoni clamorosi, che determinano scelte epocali come quella di collaborare con la Giustizia. E’ la scelta di Giusy, Giusy la pentita, Giusy l’infame, Giusy che non è più nostra parente, hanno sbandierato ai quattro venti i familiari, soprattutto l’inquieto Leonardo, detto Nardo, uno che bruciava i letti delle celle e che dal carcere si preoccupa sempre per le mucche: per tutelare gli animali voleva addirittura fare ammazzare i figli del fratello Vito – pure lui detenuto – perché babbiavano, scherzavano un po’ troppo e per Nardo le mucche contano più dei cristiani. Giusy si è pentita e la storia dice che lo ha fatto per amore di Alfio Garozzo da Giarre, uno che tenta a viva forza di entrare, anzi di modificare radicalmente la dinasty. Compare Alfio rivendica infatti con energia il proprio ruolo nel pentimento della Vitale, che definisce propria convivente. Gli avevano dato i permessi per i colloqui mensili, ma ora glieli hanno revocati e lui fa come un ossesso, dal carcere non fa altro che lanciare accuse ai magistrati, che – sostiene – con lui avrebbero fatto un patto: il pentimento di Giusy in cambio del programma di protezione anche per Garozzo. Avanza dubbi e sospetti, lascia capire che, pur di convincere la Vitale a parlare, secondini compiacenti e direttori di carceri muti, ciechi e sordi, avrebbero consentito audaci accoppiamenti in privé d’occasione, rimediati dietro le sbarre. Tutte minchiate, dicono sbrigativamente in Procura: così ’mpare Alfio si dispera e dal carcere denuncia tutti o chiede di essere processato per calunnia, per poter dare la propria versione delle origini di questo pentimento.

Garozzo annuncia pure che Giusy avrebbe persino concordato con lui e con i pm false accuse nei confronti di politici di rilievo: l’assessore al Bilancio della Sicilia, Totò Cintola, già indagato a seguito delle dichiarazioni della pentita, ma anche il senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri (condannato per mafia nel dicembre scorso) e addirittura l’ex ministro della Difesa del Governo Berlusconi Alfredo Biondi, finora mai attinto da sospetti, accuse e/o calunnie, sebbene di professione faccia l’avvocato penalista e contro gli avvocati, si sa, i pentiti sono spesso prodighi di accuse. Nella tempestosa vita sentimentale di Giusy la pentita, Alfio il catanese non è stato il solo ad avere a che fare con la donna, abbastanza inquieta, sotto questo aspetto. Tutto documentato, tutto ammesso dalla pentita, tutto finito in intercettazioni eseguite dalla polizia: proprio una telefonata con il primo amante, il consigliere comunale del Ccd Ciriello Campione, smorfiata dal superesperto Gioacchino Genchi, era stata determinante come prova della responsabilità di Giusy per un omicidio. Incastrata per sesso, così, la Vitale è stata convinta a pentirsi sempre per amore. Perché nello stesso periodo in cui era sposata con Angelo Caleca e fidanzata con Campione, la Vitale si faceva fotografare a non meglio precisati ricevimenti assieme a Garozzo, un tipo che a vederlo pare uscito, lui sì, dai Soprano o dal Padrino di Francis Ford Coppola: occhiale scuro anche a notte fonda, capello color catrame pettinato all’indietro e impomatato a dovere, abito scuro o giubbotto di pelle, foulard, espressione severa quanto basta per poter essere trasformato in icona mediatica di una Cosa Nostra tutta da ridere. Amore e morte, amore e pentimenti, amore e arresti: un tema ricorrente, in famiglia, dato che pure Vito Vitale, fratello di Giusy e volta boss partinicese, fu catturato per il classico cherchez la femme. E chi gliela stava portando, l’amichetta, a Vito? La sorella Giusy, ovviamente. Sangue caldo, sangue bollente, quello dei Fardazza, maschi e femmine. Sesso e potere, mafia e testosterone in eccesso: chi comanda sente il bisogno di sfogare ormoni e sentimenti. Ma anche di riprodursi: perché Vito, il bello di casa, mentre era latitante, oltre a incontrare la sua avvenente amante, ha messo incinta quattro volte la moglie, che certo, con tutto il rispetto, non può essere definita una bella donna. Altro che procreazione assistita. Procreazione infallibile alla siciliana, si chiama questa. I Vitale non erano stati sempre così. Vaccari, pecorai, avevano fatto il salto di qualità solo nel periodo a cavallo tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90, quando avevano deciso di mettersi a lavorare in grande, di lasciar perdere le piccole estorsioni e di scalzare la gerontocrazia al potere a Partinico, rappresentata da due persone che si chiamano entrambe Nenè Geraci, uno “il Vecchio”, l’altro “Il Giovane” (quest’ultimo poi ucciso), da Fifetto Nania e da altri boss spalleggiati da Bernardo Provenzano. I Vitale si erano dedicati agli affari di mafia, alle famiglie e ai mandamenti, avevano cominciato a sparare, a squagliare la gente nell’acido e a far valere la legge del più forte, quella del loro alleato Totò Riina, il sanguinario comandante di Cosa Nostra. I Fardazza avevano una bella tenuta a Valguarnera, a due passi da Partinico. Un posto ritirato, riservato, in cui si tenevano le riunioni durante le quali Riina ordinava lo sterminio dei nemici. Ai summit mafiosi quello stravagante di Provenzano andava vestito da vescovo, ha raccontato la Vitale, e i fratelli di lei lo criticavano. In realtà lo odiavano anche per altri motivi, perché “Lo Zio” stava dalla parte degli anziani boss partinicesi e non con loro, il nuovo che avanzava. Il tratto inconfondibile del viddano e del pere ‘ncritatu, l’uomo di campagna che ha sempre gli scarponi zozzi di terra, di creta, lo hanno conservato tutti. I Vitale sono cinque fratelli: all’inizio contavano solo i maschi di casa, Leonardo, Vito e Michele. Il primo è in galera dal 1995, Vito fu latitante fino al ’98 e poco prima di lui era finito in galera anche Michele, il meno dotato dei tre, nel senso che è considerato il più scarso della famiglia. Dopo questi arresti finì in carcere pure il figlio appena quindicenne di Vito: si gridò alla persecuzione, ma il ragazzo nelle intercettazioni ambientali parlava da boss; condannato per associazione mafiosa, ha scontato la pena, è uscito tre anni fa ed è finito di nuovo in galera, oggi che di anni ne ha ventidue. Esauriti i maschi di casa, e per tenere vivo il cognome Vitale, i Fardazza hanno cominciato a mettere in mezzo pure le donne di casa: la prima è stata Giusy, nominata reggente del mandamento, anche se per sicurezza le avevano assegnato una specie di tutor con i pantaloni, Michele Seidita. Considerato dai Vitale, Leonardo in testa, un uomo di fiducia, Seidita poi si è scoperto che tanto di fiducia non era, visto che in primis s’è fatto pentito e in secundis, dopo che ha cominciato a cantare, ha raccontato tante di quelle balle da costringere la stessa Giusy a pentirsi a sua volta, per ristabilire un po’ di equilibrio tra bugie e verità, tra minchiate insostenibili e mezze minchiate credibili. Giusy ha accusato i fratelli ma ha salvato il marito: ha confessato di avergli piantato una serie di corna, ha ammesso di aver ordinato un omicidio, ma ha scagionato Angelo Caleca – dal quale è ormai separata – dall’accusa di aver avuto un ruolo nell’eliminazione di un salumiere inteso “Mortadella”. Seidita, macinato in un interrogatorio da tre agguerriti pubblici ministeri, Alfredo Montalto, Maurizio de Lucia e Francesco Del Bene, è poi incappato in una serie sterminata di contraddizioni, del tipo “sono andato a uccidere viaggiando a bordo di una bicicletta e poi l’ho gettata in un cassonetto”. E’ così che Caleca è uscito di prigione: quasi un record, per uno degli appartenenti al nucleo familiare dei Vitale. Ciò nonostante, però, l’ex marito di Giusy è tornato in paese con la poco invidiabile ‘nciuria legata al tradimento, ormai conclamato e processualmente accertato. L’altra femmina di casa finita in galera, pure lei, crudelmente, per due volte di seguito, è stata Antonina, sorella di Giusy, di Leonardo, Vitale e Michele. La accusano di avere fatto da portaordini, di essere stata addentro agli affari mafiosi del clan, di averli fatti proliferare e moltiplicare. In luglio l’hanno scarcerata per un errore formale, ma manco il tempo di respirare un po’ di libertà che Nina è tornata in prigione: i magistrati hanno rimediato all’errore e nel nuovo ordine di custodia hanno fatto inserire pure le accuse di Giusy. Anche Nardo ha all’attivo storie di amore e corna: le corna delle mucche, cui è legato in maniera viscerale. In questo rapporto non c’è solo l’idea di accoppare i nipoti per mancanza di rispetto nei confronti degli animali. Un giorno Vitale prese carta e penna e scrisse, dalla sua cella dove sta rinchiuso al 41 bis, a un povero veterinario dell’Asl di Partinico, accusandolo di avercela con lui e con la sua famiglia, perché voleva far abbattere i bovini, ammalati di brucellosi. Ne scaturì uno psicodramma, perché da quel momento in poi tra Comune, vigili urbani e Azienda sanitaria cominciò un rimpallo di competenze senza precedenti: nessuno volle più toccare quegli incolpevoli animali, la Asl diceva che doveva pensarci il Comune, il Comune diceva che i vigili dovevano garantire la forza pubblica, i vigili dicevano che dovevano pensarci i carabinieri. Fino a quando le povere bestie non furono misteriosamente rubate. Con enorme sollievo di tutti.

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