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PALERMO – I dubbi sulle indagini effettuate sulla strage di via D’Amelio, i contatti telefonici fra esponenti mafiosi e i servizi segreti, l’ipotesi che uomini di Cosa nostra sarebbero stati utilizzati come manovalanza da ‘apparati’ per mettere a segno l’attentato. E’ quanto emerge dalla deposizione del vice questore Gioacchino Genchi.
Il funzionario di polizia, interrogato oggi dai giudici della corte d’assise d’appello di Caltanissetta, davanti ai quali si svolge il processo ”Borsellino bis” che riguarda gli esecutori materiali della strage, ha parlato di ‘anomalie’ nelle indagini.
Ex componente del gruppo investigativo ‘Falcone-Borsellino’, Genchi, rispondendo alle domande del presidente della corte, Francesco Caruso, ha ricordato il suo trasferimento dal gruppo dopo avere depositato una relazione sull’agenda elettronica di Falcone. Dalla memoria emergeva che Falcone, nel ’91 aveva incontrato in carcere il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, presente anche Gian Nicola Sinisi. Genchi ha ricordato anche di essersi opposto al fermo di Scotto, il telefonista che avrebbe intercettato la chiamata di Borsellino alla madre, ”perché era il caso di seguirlo e ci avrebbe portato a scoprire altri complici. Arrestarlo è stato inutile”.
Secondo Genchi, la procura di Caltanissetta si sarebbe ”chiusa a riccio” dopo che ”erano emersi contatti fra i boss coinvolti nella strage ed apparati istituzionali”. Per Genchi la procura non avrebbe dato il via libera ad indagare su questi fatti. Genchi ha inoltre espresso perplessità sulla gestione del pentito Vincenzo Scarantino.
Il funzionario si è poi soffermato sul fatto che gli esecutori materiali della strage utilizzavano telefonini cellulari clonati già nell’ottobre del ’91, mentre i collaboratori di giustizia sostengono di averli avuti a disposizione dopo gli attentati. I tabulati telefonici sembrano dare ragione a Genchi, il quale avanza un’altra ipotesi investigativa già illustrata a suo tempo ai magistrati di Caltanissetta. Secondo il teste, le persone che hanno premuto il pulsante che ha provocato l’esplosione, non si potevano trovare nelle vicinanze di via D’Amelio perché sarebbero state raggiunte dall’onda d’urto.
Gli investigatori avevano individuato come possibile base il Castello Utveggio, che sovrasta la città, dove ha sede la scuola di formazione del Cerisdi e dal quale con un binocolo si poteva controllare la strada in cui avvenne la strage. In questo punto di osservazione, secondo Genchi, si sarebbe insediato per un periodo, un gruppo del Sisde. Il funzionario fa notare alla Corte che nei tabulati di Scotto risulta la chiamata a un numero telefonico intestato al Cerisdi.
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