CONTATTA LO STUDIO
Pbx con ricerca automatica: 0692959901
WhatsApp: +39 335238128
Telegram: @gioacchinogenchi
Dopo il successo dell’Anteprima “SPECIALE Strage di Capaci” realizzato per i 28 anni dall’attentato del 23 maggio 1992, ilSicilia.it vi propone la versione integrale dell’intervista esclusiva all’Avvocato Gioacchino Genchi.
Tra i massimi esperti di intercettazioni telefoniche in Italia, ex poliziotto e perito informatico, con un passato dedicato alle indagini relative alla strage di Capaci e via D’Amelio, l’Avv. Genchi è entrato nel dettaglio dei numerosi misteri irrisolti dell’attentatuni in cui morì il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
*****
L’INIZIO.
Si parte dalle immagini di quel drammatico giorno che portò alla fine della prima Repubblica: «Purtroppo dopo 28 anni quelle immagini sono rimaste scolpite nella mia mente – racconta Genchi – . Le stragi hanno cambiato la mia vita, il corso degli eventi e hanno determinato anche il mio destino personale».
IL RICORDO COMMOSSO DI FRANCESCA MORVILLO.
«Il rapporto che è nato con Francesca Morvillo sotto certi aspetti è stato forse superiore rispetto a quello con Giovanni Falcone, che poi andò a Roma. Io rimasi in contatto con lei e nacque un rapporto veramente molto bello. Tant’è che poi chiamai mia figlia Francesca, anche nel ricordo di questa grande donna. Lei mi ha dato un insegnamento che io porto ancora dentro di me: ovvero che accanto ad un grande uomo c’è sempre una grande donna. Falcone aveva il “turbo” anche grazie a lei. Posso garantire che quando Falcone era in vita era detestato, odiato e invidiato da tutti».
IL DATABANK.
C’è un episodio simpatico tra Genchi e Falcone: si conoscono grazie alla tecnologia della fine anni ’80.
«Io conosco Giovanni Falcone per caso, grazie ad un databank della Casio. Lo conservo ancora come uno dei reperti più importanti della mia vita. Lavoravo come Direttore dell’ufficio di informatica e telecomunicazioni per la Polizia di Stato. Un giorno ero in Tribunale per una perizia tecnica; aprii il mio databank per consultare dei dati su alcune intercettazioni. Entrò il dottore Falcone in aula e mi chiese cosa fosse quella “calcolatrice”. Gli risposi che non era una calcolatrice ma una agenda elettronica in cui poter salvare numeri telefonici, file, dati, intercettazioni, ecc… Lui rimase stupito. Mi chiese quanto costasse… per la verità me lo chiese più volte nel corso del colloquio. Prese una penna e si segnò il modello: Casio SF7500. E poi mi salutò. Quel giorno ero felice perché conobbi Falcone, che all’epoca era un’entità siderale, conosciuto in tutto il mondo… La giustizia italiana all’epoca (1987/88) era ancora ferma alla carta carbone e alle fotocopiatrici. Oggi i giovani neanche sanno cosa sia la carta carbone.
Dopo qualche giorno – aggiunge – mi disse che comprò il databank in America, ma costò la metà di quanto lo comprai io. Lui non riusciva ad accenderlo e mi chiese aiuto. Io tolsi semplicemente la linguetta della batteria e si accese: il suo sorriso fu immediato. I suoi occhi brillarono di gioia. Volle lasciata la lingua inglese e gli spiegai le funzioni. Poco dopo comprò anche un computer portatile Toshiba nero. E da lì iniziarono i nostri incontri. Gli spiegai i fogli elettronici con Wordstar di Framework (che sarebbe il vecchio Excel per intenderci). Falcone impazzì per questi mezzi tecnologici. Mi disse che se li avesse avuti prima, al Maxiprocesso avrebbe potuto processare il triplo delle persone andate in giudizio».
COMPUTER MANOMESSI E FILE CANCELLATI.
Quando fece le indagini su Capaci, trovò nella stanza di Falcone i computer manomessi, le schede di memoria sparite… e uno strano file, denominato “Orlando.bak”.
«Il dottore Celesti, una persona molto perbene, mi chiamò per fare le indagini sui computer di Falcone, subito dopo Capaci. Uscì un articolo sul “Sole 24 Ore” della giornalista Liana Milella, che pubblicò degli stralci di alcuni appunti che gli diede Falcone prima di morire. Gli appunti venivano dal suo databank Casio SF9000. Si comprò pure un databank Sharp, come il mio. Nel frattempo io gli regalai la mia scheda di memoria del mio vecchio Casio, che non usavo più. Questa scheda di memoria non si trovò mai; il databank lo trovammo cancellato. Il magistrato Giannicola Sinisi che era con Falcone al Ministero, disse che non lo usava più perché gli si smagnetizzò all’aeroporto. Ma non è vero. Riuscimmo infatti con l’intervento dei giapponesi della Casio a trovare gli appunti di Falcone. Dopo il 23 maggio sarebbe dovuto andare ad un convegno a Valladolid (Spagna, ndr), poi alla mattanza dei tonni di Favignana e poi doveva incontrare Giammanco a Palermo. Con lui i rapporti non erano assolutamente idilliaci; Falcone era un uomo cerniera che con il ministro Martelli varò provvedimenti importanti sul fronte della lotta alla mafia. I provvedimenti più duri probabilmente nel contrasto a Cosa nostra. Il Ministero della Giustizia poi mi affiancò un perito, Luciano Petrini. All’inizio ero diffidente, poi capii che era una persona molto mite, competente e perbene.
Andammo così a Roma, al Ministero di via Arenula, per analizzare l’ufficio di Falcone. La stanza era sigillata: pretesi la presenza di un magistrato per il sopralluogo, e venne Carmelo Petralia. Aprimmo la stanza e accendendo i computer ci accorgemmo subito che erano stati accesi dopo il 23 maggio. C’era un file nascosto, denominato “Orlando.bak”, un file di backup per il quale mancava il file “Orlando.doc”. Era sparito. Qualcuno lo ha cancellato… probabilmente perché dava fastidio. Il file “Orlando.bak” conteneva tracce degli appunti di Falcone per difendersi al Csm dalle accuse dell’allora sindaco Orlando (le famose “carte nei cassetti”); il file era stato aperto e modificato in data successiva alla strage. E la clock del computer era perfetta. Quindi quel computer è stato acceso in una stanza chiusa, sotto sequestro, coi sigilli, al Ministero della Giustizia. Falcone e Borsellino furono costretti a difendersi al Csm; oggi è bene che i giovani sappiano chi erano i detrattori di Falcone e Borsellino. Abbiamo visto tutti che fine hanno fatto gli eroi dell’Antimafia. C’è ipocrisia nell’usare le icone di Falcone e Borsellino per fare carriere, per avere vantaggi politici, per fare campagna elettorale».
IL “DOPPIO TELECOMANDO”.
Al processo d’appello Capaci bis il pentito Riggio ha sollevato di recente l’ipotesi dell’esistenza di un secondo telecomando, e quindi che non fu Brusca (e quindi solo la mafia) a eseguire la strage. Il famoso “Terzo livello” con soggetti esterni a Cosa nostra?
«Io l’ho sempre sostenuto dal primo momento. Le mie indagini portavano in questa direzione… poi mi hanno bloccato. Il Gotha di Cosa nostra, i corleonesi, non avevano la capacità organizzativa, militare, strategica, di intelligence, per organizzare un attentato come la strage di Capaci. L’elemento principale non era l’esplosivo utilizzato, ma le informazioni su quando e come Falcone sarebbe arrivato da Roma a Palermo. Falcone viaggiava in un aereo dei Servizi segreti col piano di volo coperto da Segreto di Stato. Non doveva e non poteva saperlo nessuno. Chi lo ha saputo, l’ha saputo dagli apparati dello Stato. Infatti le telefonate che io ho trovato partivano da Roma.
L’obiettivo era impedire l’elezione di Andreotti a Presidente della Repubblica. Quindi la strage è stata congegnata in quel modo, in quel luogo e in quella data, solo con quello scopo. Non entro nel merito della figura di Andreotti, ma resta un fatto che quel governo DC ha varato i provvedimenti più duri contro la mafia. Gli USA avversavano Andreotti per la politica estera di distensione con la Russia di Gorbačëv, con Papa Wojtyla e contro le guerre; quando in Usa sta per essere eletto Bush, candidato delle potenze internazionali delle industrie degli armamenti, che volevano le guerre. La politica estera di Andreotti avrebbe compromesso l’imperialismo americano, e quindi andava bloccato impedendone l’elezione a Presidente della Repubblica. Come si entra a gamba tesa? Con una strage che ha avuto un effetto deflagrante: la fine della Prima Repubblica, della Democrazia Cristiana, dei partiti tradizionali e l’avvento di un nuovo corso politico che abbiamo visto quale essere stato.
La mafia è stata usata per lasciare il marchio, il bollino, l’imprimatur di chi l’aveva fatta. Quelli erano dei pecorai… Brusca non lo aveva mai preso un telecomando in vita sua! A loro hanno dato l’impressione di aver premuto. Di loro servivano quelle cicche di sigaretta, fatte trovare e analizzate dall’FBI, per dare il marchio di origine a quella strage. Cosa nostra si è prestata a quel gioco, ma per loro è stata la fine, perché con quella strage hanno fatto l’errore peggiore della loro vita: sono stati truffati da chi li ha portati in quella collinetta a recitare la parte. Quelli erano dei figuranti, erano degli attori, perché i veri protagonisti di quella strage non sono mai emersi. Quei mafiosi pecorai assassini la strage l’hanno fatta, ma il congegno, l’organizzazione, la predisposizione, lo studio, la scelta, il momento, il perché, serviva ad altri. Quelli si sono prestati a recitare la comparsa».
LA TELEFONATA IN AMERICA.
Un cellulare 0337 – sicuramente clonato – il giorno della strage chiamò più volte in Minnesota. Dalle indagini è emerso che fu Antonino Gioè (morto misteriosamente suicida in carcere). Ma chi rispondeva dagli Stati Uniti? Una domanda rimasta senza risposte.
«Gioè è uno degli anelli più deboli di quella catena. Detenuto a Sciacca, conobbe Bellini, soggetto legato al terrorismo, ai Servizi segreti e ad un ex direttore del Dap. Gioè si suicida in circostanze inspiegabili nella sua cella, e stento molto a crederci. Anche lì non sono state fatte molte indagini… Così come per lo strano suicidio del giudice Signorino: non è mai stata diffusa la lettera che scrisse prima del suicidio. Molte verità gli italiani non le conoscono».
“L’ABBAGLIO” SU MAIRA.
Sempre il pentito Riggio dice: “Peluso (un ex poliziotto) mi disse che la telefonata per avvisare dove sarebbe atterrato Falcone partì da un cellulare di un parlamentare di Caltanissetta: Rudy Maira” (fonte Ansa, ndr). Lei cosa scoprì quando analizzò quel traffico telefonico?
«Io trovai le utenze dei cellulari di Gioè, di Di Matteo e degli altri soggetti che comunicarono con le utenze di Roma; poi fui fermato e le utenze di Roma che erano le più importanti (compresi i contatti con gli Usa e il Minnesota) non potei analizzarle perché mi fermarono.
Intanto lo SCO della Polizia trova delle telefonate suggestive di soggetti dell’entroterra siciliano (Enna, Caltanissetta, ecc). Tra questi contatti c’è il cellulare del parlamentare Rudy Maira, uomo DC legato alla corrente andreottiana, per il quale addirittura la procura di Caltanissetta chiese l’autorizzazione a procedere. Fu comodo trovare un “capro espiatorio”, ma Maira, avvocato e poi deputato Ars, fu poi processato e assolto. Quindi era innocente. Io feci una ricostruzione di quelle telefonate e mi misi a ridere perché partivano da dei giostrai. Maira non c’entrava niente.
A mio avviso erano più importanti le telefonate di Roma con gli Stati Uniti, che per me sono la regia strategica e politica di quell’attentato. Sicuramente c’è stata una sovrapposizione di telecomandi. La vera storia di quell’attentato deve essere ancora scritta».
GRAVIANO E L’USCITA DEI BOSS DAL CARCERE
Giuseppe Graviano recentemente ha lanciato nuovi segnali dal carcere accusando ancora Silvio Berlusconi. Dopo è scoppiata la pandemia da Coronavirus e molti boss sono usciti dal carcere. È solo una coincidenza o come sostiene Mutolo, “la Trattativa prosegue”?
«Il termine “trattativa” mi rifiuto di utilizzarlo perché è ontologicamente errato. Come disse il prefetto di ferro Cesare Mori, “la mafia è come una puttana: striscia sempre attorno al potere”. Le organizzazioni criminali hanno sempre avuto un riferimento nelle istituzioni. A prescindere dal colore politico dei partiti, hanno sempre saputo trovare dei canali. Molti trasferimenti nelle carceri, molte azioni di violenza e torture sono preordinate a ottenere dei risultati. Anche attraverso delle intercettazioni, a volte fatte ad arte dagli stessi protagonisti, sapendo di essere intercettati in carcere. E poi vengono prese come “oro colato”, quando invece bisognerebbe diffidare di più. Il signor Graviano è libero di dire ciò che vuole; io non lo conosco, non ci ho mai parlato. Però, qualunque cosa dica, deve essere valutata, vagliata. Non si può rimanere passivi quando Graviano inizia a parlare dopo oltre 20 anni dalla sua cattura. Prima cosa occorre verificare se è pazzo o no; se non è matto, verifichiamo se ciò che dice è vero».
Con l’Avv. Genchi abbiamo poi passato in rassegna i numerosi “buchi neri” riguardanti la strage del 19 luglio 1992: dal depistaggio al ruolo di La Barbera, dai presunti legami di Scotto coi Servizi Segreti alla pista del Castello Utveggio, dalla pm Annamaria Palma a Giuseppe Ayala, dalla scomparsa dei tabulati telefonici di Borsellino all’agenda rossa… Tutte le risposte, presto su ilSicilia.it, con un nuovo SPECIALE dedicato alla strage di via D’Amelio.
© 2016 STUDIO LEGALE GIOACCHINO GENCHI – All Right Reserved | Privacy Policy | Cookie Policy – Web Design by Halloweb