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La prima svolta nelle indagini sulla Strage di via D’Amelio in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino è arrivata col “Borsellino quater” che ha certificato nel 2017 il colossale depistaggio (“uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”) messo a segno probabilmente dalle “menti raffinatissime” di cui parlava Falcone.
E mentre il processo sulla Trattativa Stato-mafia si è concluso in primo grado con condanne pesantissime (LEGGI QUI), nel 2019 è arrivata la seconda svolta: per quel depistaggio sono sotto accusa anche due pm che all’epoca gestirono il falso pentito Vincenzo Scarantino: Anna Maria Palma e Carmelo Petralia.
Sono quindi ancora tante, oggi, le domande senza risposta e i misteri attorno alla strage del 19 luglio 1992. Oltre alla matrice mafiosa, si cercano anche i cosiddetti “mandanti occulti” e i depistatori di Stato.
Ecco una carrellata sui quesiti rimasti aperti, i “buchi neri” di via D’Amelio.
Il primo e tra i più inquietanti aspetti mai indagati a fondo è la presenza di un uomo misterioso, esterno a Cosa nostra, di cui parla il pentito Gaspare Spatuzza quando racconta del furto e della preparazione della Fiat 126 con 90 chili di tritolo. In un garage di via Villasevaglios 17 c’è anche questa oscura presenza, mai individuata con certezza.
Nel 2009 Spatuzza lo aveva indicato come un appartenente ai servizi segreti, e indicandolo in Lorenzo Narracci, braccio destro di Bruno Contrada e 007 del Sisde, il cui numero di telefono è presente anche in un foglietto rinvenuto nei pressi del cratere di Capaci. Lo 007 era pure residente in via Fauro a Roma, teatro della strage del ’93. Tre singolari coincidenze o qualcosa di più?
Spatuzza lo riconoscerebbe durante un confronto all’americana, salvo poi fare un leggero passo indietro nel 2010, parlando solo “di una certa somiglianza” con quell’uomo misterioso. Ad oggi questo “uomo nero” resta senza un volto e un nome.
Come facevano i mafiosi a sapere gli orari e gli spostamenti esatti di Borsellino di quella domenica? Il giudice aveva l’abitudine di andare a trovare la madre in via D’Amelio (colpevolmente lasciata senza zona rimozione, altro “buco nero”), ma la visita di quel giorno fu imprevista. Tanto che Borsellino avvertì per telefono del suo arrivo.
La Procura di Caltanissetta incaricò il commissario Gioacchino Genchi di svolgere una perizia sul telefono di casa di Rita Borsellino, la sorella del giudice che abitava con la madre in via D’Amelio: dalle testimonianze emerse che c’erano stati precedentemente strani rumori di fondo nelle telefonate, oltre ad “alcuni squilli anomali”. Per il consulente, il telefono quindi poteva essere stato intercettato.
A confermare questa pista, dopo tanti anni, nel 2013, lo stesso Totò Riina, intercettato al carcere di Opera. A colloquio con la sua “dama di compagnia” Alberto Lorusso, Riina rivelò: «Sapevamo che Borsellino doveva andare là perché lui ha detto: ‘Domani mamma vengo’».
Fu realmente intercettato quel telefono? E da chi? Secondo le indagini il sospetto autore fu Pietro Scotto, un tecnico della società telefonica Sielte, fratello di Gaetano Scotto, boss dell’Arenella considerato trait d’union fra i vertici di Cosa nostra e ambienti dei servizi segreti deviati.
Gaetano Scotto è tra i mafiosi condannati all’ergastolo per la strage e poi rimesso in libertà insieme agli altri 6 boss: Salvatore Profeta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana e Vincenzo Scarantino. La sua posizione però sembrerebbe diversa rispetto a quella degli altri ingiustamente accusati della strage: su Scotto peserebbero altre ombre, come l’Addaura e i presunti contatti con Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro“.
Dopo tanti anni ancora non si è riusciti a identificare con assoluta certezza chi azionò l’ordigno piazzato sulla 126. In base alle testimonianze dei collaboratori di giustizia Tranchina e Ferrante, sarebbe stato Giuseppe Graviano ad azionare la carica dal giardino-agrumeto che delimita via D’Amelio.
Ma è realmente possibile che abbia deciso di esporsi al rischio dell’onda d’urto in un luogo così vicino? Poteva essere facilmente visto da qualche condomino del palazzo. E finora manca una prova tangibile del luogo esatto da cui partì l’input del telecomando.
Riina invece dice che fu piazzato direttamente nel tasto del citofono. Fu davvero così? Ancora è un mistero.
Un giallo anche il ritrovamento sul tetto di un edificio di fronte a via D’Amelio di cicche di sigarette e un vetro scudato (QUI IL VIDEO de L’Espresso con le analisi della Scientifica).
Il complesso “Iride“, cioè il palazzo dei “fratelli Graziano“ a 11 piani all’epoca in costruzione, sito a pochi metri dal luogo e con una visuale perfetta sulla strada, venne perlustrato da due agenti della Criminalpol di Catania: Mario Ravidà e Francesco Arena.
È la mattina del 20 luglio 1992: sono passate circa 12 ore dalla strage. I due poliziotti individuano il palazzo dei Graziano come possibile punto per azionare l’autobomba. Mentre uno interroga sulle scale uno dei Graziano (legati ai Madonia e ai Galatolo), l’altro poliziotto sale sul tettodell’edificio e trova 26 piante ad alto fusto a mo’ di copertura, un vetro spesso scheggiato poggiato sul parapetto, molti mozziconi di sigaretta e dei numeri di cellulare.
All’improvviso giunge un’altra squadra di poliziotti che blocca i due colleghi della Criminalpol: “Tutto ok, ci pensiamo noi”. Così i due se ne vanno, stilando una relazione di servizio dettagliata. Relazione che inspiegabilmente scompare.
Su quei reperti non fu mai fatta l’analisi del DNA, che avrebbe potuto portare a chi verosimilmente pigiò il telecomando da lì o a chi faceva da vedetta.
Un’altra ipotesi sull’azionamento dell’esplosivo riguarda Castello Utveggio, da cui si ha una visuale ad ampio raggio sul luogo della strage.
Agnese Borsellino ha raccontato che suo marito le raccomandò una volta di non alzare la serranda della camera da letto, perché avrebbero potuto spiarli dal Castello Utveggio.
Chi c’era lì? Oltre a essere la sede del Cerisdi, per Genchi era una sorta di sede occulta del Sisde (servizio segreto civile) a Palermo: “Con mio disappunto – rivela Genchi – La Barbera convocò Verga (direttore del Cerisdi) palesandogli l’oggetto dell’indagine. Tali soggetti di lì a poco smobilitarono dal castello”.
I tabulati telefonici per Genchi dicono che con certezza il Sisde operò da lì, nonostante abbia più volte smentito questa circostanza.
Oggi sappiamo che Arnaldo La Barbera era a libro paga del Sisde, con il nome in codice “Rutilius”, definito come il “protagonista assoluto dell’intera attività di depistaggio”.
Notevole il ricordo del Sovrintendente Francesco Paolo Maggi, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. Maggi arrivò tra i primi, circa dieci minuti dopo il botto delle 16,58: «Uscii da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa… proprio senza una goccia di sudore». Era «gente di Roma» che lo stesso Maggi conosceva di vista, appartenenti ai Servizi Segreti.
Che ci facevano lì in così poco tempo? Guardando attentamente le immagini dell’epoca si vedono in effetti diverse figure losche aggirarsi tra i corpi fatti a pezzi. Si faccia quindi chiarezza identificando questi soggetti, per capire le ragioni del loro vagare con fare sospetto in via D’Amelio.
L’esplosione è fissata esattamente alle ore 16:58 e 20 secondi. Dopo appena 100 secondi, alle 17 in punto, Bruno Contrada – in barca con l’amico Gianni Valentino e lo 007 Narracci – chiama dal suo cellulare il centro Sisde di via Roma e, a suo dire, ottiene conferma dell’attentato. In mezzo a quei cento secondi però c’è stata un’altra telefonata: quella che ha avvertito Valentino dell’esplosione.
Dunque, in soli 100 secondi: esplode l’autobomba in via D’Amelio; un misterioso informatore (Contrada dice la figlia dell’amico) avvisa da un telefono fisso (non identificabile dai tabulati) dell’accaduto; Valentino a sua volta informa Contrada e gli altri sulla barca; Contrada dal suo cellulare chiama il Sisde e ottiene la conferma sull’attentato.
Tutto in soli cento secondi. Come poteva sapere la figlia di Valentino, a pochi secondi dal botto, che – parola di Contrada – “c’era stato un attentato”? E come potevano sapere al Sisde che era esplosa una bomba in via D’Amelio già 100 secondi dopo lo scoppio?
Fino alle 17:15 le forze dell’ordine parlavano genericamente di “esplosione” e “incendio in zona Fiera”. Valentino e Contrada, però, in mezzo al mare, già alle 17 sapevano tutto.
Contrada per tre volte sarà indagato per concorso in strage e tutte e tre le volte archiviato.
Il mistero dei misteri resta la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Su questo aspetto si sono scritti fiumi di inchiostro: una telefonata anonima ad un giornalista nel 2005 permise di far trovare una foto finita nel dimenticatoio per 13 anni; nel celebre scatto di Franco Lannino, l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, con la borsa in mano. Arcangioli fu poi indagato e assolto in via definitiva.
Sappiamo comunque che l’ex pm Giuseppe Ayala fu tra i primi ad arrivare in via D’Amelio. Le sue molteplici versioni sulla borsa di Paolo Borsellino sono considerate “contraddittorie” da Fiammetta Borsellino.
Di recente Ayala ha replicato nervosamente (LEGGI QUI) alla figlia di Borsellino. E in aula si è scontrato duramente con l’avvocato Fabio Repici(legale di parte civile di Salvatore Borsellino) che puntava a dimostrare l’inattendibilità del teste.
“Il collega Ayala – ha detto il pm Nico Gozzo – ha reso diverse versioni… non so quanto tutto questo appartenga al modo di essere di Ayala oppure evidentemente a una voglia in qualche modo di depistare le indagini. Saranno i colleghi di Caltanissetta a stabilirlo”.
In un recente editoriale, il cronista Saverio Lodato scrive: «Ripetutamente interrogato sul punto, Giuseppe Ayala, avanti negli anni come tutti noi, a spiegazione di una quasi mezza dozzina di versioni differenti su questa circostanza, si è dichiarato pronto a rendere conto a Dio quando sarà, visto che su questa terra la memoria non lo aiuta più, nel ricordare a quali mani affidò la borsa delle discordia».
L’unica cosa certa è che quella borsa tornerà improvvisamente dentro l’auto, ancora fumante e con qualche focolaio da spegnere. Poi la nuova asportazione. La borsa sarà per oltre 6 mesi nell’ufficio di Arnaldo La Barbera, abbandonata. E non appena Lucia Borsellino chiese chiarimenti per l’assenza dell’agenda rossa, fu presa per pazza.
Infine il depistaggio sulle indagini, ormai certo. Chi ha tradito Borsellino? Chi istruì Scarantino suggerendogli bugie condite da elementi di verità? Sono stati solo i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, oggi sotto indagine? O come sostiene Fiammetta Borsellino, alle spalle ci sarebbero alcuni magistrati?
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