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Parla Gioacchino Genchi il superconsulente delle procure “l’uomo dei telefoni” destituito dalla Polizia Di Stato lo scorso febbraio per le sue dichiarazioni lesive nei confronti del premier Silvio Berlusconi. Genchi che ha lavorato fianco a fianco con Falcone e Borsellino è stato assolto lo scorso 12 Aprile, a ‘Notte Criminale’ rilascia delle dichiarazioni del tutto ESCLUSIVE. Sotto il video dell’intervista, segue il testo integrale.
Dottor Genchi, cominciamo dalla fine. Il 15 febbraio scorso è stato destituito dalla Polizia dopo aver indossato quella divisa per 26 anni. Una lunga istruttoria condotta dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza non le ha perdonato alcune esternazioni dopo la bufera per le indagini condotte con il pm De Magistris, che l’hanno anche fatta finire sotto inchiesta per una presunta violazioni della privacy. Come mai ce l’hanno così tanto con lei?
Hanno cercato di tutto per impedirmi di continuare la mia attività con l’autorità giudiziaria nelle indagini difficili. Si era creata col tempo, partendo da Giovanni Falcone, una figura professionale di un collaboratore di magistrati in importanti indagini, le più importanti che c’erano in Italia. L’ultima in ordine di tempo è Fastweb, oltre a omicidi e stragi. Quindi bisognava bloccare questa persona incontrollabile e incontrollata. E’ stata un’operazione che dal proclama di Berlusconi “che stava scoppiando il più grande scandalo della Repubblica” di Olbia del gennaio del 2009, è iniziato il conto alla rovescia per delegittimarmi e in questo senso è stato chiesto, chiaramente, addirittura è stato minacciato il Capo della polizia – sono delle dichiarazioni di autorevoli politici, autorevoli a casa loro ovviamente, tipo Gasparri. Quindi la destituzione era una conseguenza di quello che era già stato iniziato. La cosa interessante è che hanno cercato di tutto nella mia vita privata e nella mia vita professionale. Non sono riusciti a trovare nulla e quindi mi hanno dovuto destituirmi semplicemente per aver espresso delle opinioni in un consesso pubblico, esercitando un diritto costituzionale, mentre per altro ero già sospeso dal servizio, quindi loro mi contestano di non aver chiesto l’autorizzazione, che non avrei mai potuto chiedere perché ero sospeso dal servizio. Poi non ho reso quelle dichiarazioni nella qualità, o comunque nell’esercizio delle funzioni, per cui sarei stato sottoponibile a un procedimento disciplinare che mai sarebbe potuto arrivare alla destituzione dal servizio.
Lei è considerato uno dei massimi esperti in analisi delle reti e indagini collegate all’impiego delle intercettazioni. E’ il consulente di decine di procure, intrecciando tabulati e localizzando cellulari ha risolto centinaia di casi, ci può spiegare in cosa consiste il suo lavoro?
Vede, io metto insieme diverse professionalità. Le posso dire che ho diversi collaboratori informatici che si occupano di reti, di web, di database. Sono molto bravi, sono dei ragazzi laureati, grossi esperti, e le posso dire che il meno bravo fra loro è comunque più bravo di me. Lavoro con tanti investigatori e le posso dire che il meno bravo di tutti gli investigatori con cui ho lavorato è comunque più bravo di me. Lavoro con tanti magistrati che sono dei giuristi e le posso dire che il meno bravo fra tutti è più bravo di me. Io ho messo insieme tre professionalità: una cultura giuridica, formata anche come giovane avvocato prima di entrare in polizia; una cultura informatica messa insieme con la passione per le tecnologie, che ho avuto sin da bambino, e un po’ il cipiglio dell’investigatore che 25 anni di polizia al fianco dei più bravi investigatori e con i migliori magistrati, in indagini difficili, bene o male finisce con l’acquisirsi. Queste tre professionalità, se vuole queste tre mediocrità, quindi da uno a dieci mettiamo il valore di 5, hanno dato un valore assoluto che valeva 15, che riusciva a mediare in quel linguaggio giuridico tecnico processuale fattori assolutamente complessi. Oggi non c’è più un’indagine in cui non ci siano tabulati, intercettazioni, cellulari, sim, traffico imei, e-mail, dati dei computer, quindi tracce informatiche che bisogna mettere insieme e leggere al pari di tante tracce biologiche, come dna e impronte.
L’informatica, la sua grande passione, la avvicinò, da giovane funzionario di polizia, anche al giudice Giovanni Falcone. Fu lei, infatti, a mostrargli il Videotel, una sorta di antenato di Internet, e a sensibilizzarlo sulle potenzialità dell’informatica applicata all’indagine tradizionale.
Sì, le mostro adesso il databank Casio che mi fece conoscere Giovanni Falcone nel 1987. Lui mi vide in tribunale usare questa, che lui all’inizio chiamava una calcolatrice – dovetti dirgli per tre volte che non era una calcolatrice ma un databank. La curiosità per questo databank, in cui consultavo alcuni appunti di un processo durante una testimonianza, dove avevo annotato tutti i numeri telefonici degli uffici della polizia, dei questori, dei prefetti, dei dirigenti della squadra mobile, tutti gli appunti, il calendario dei miei eventi e dei miei impegni, lo appassionò tantissimo. Da questa calcolatrice, da questo databank Casio SF 9500, nacque la conoscenza con Giovanni Falcone. Un rapporto di stima, di amicizia, di collaborazione in situazioni difficili che poi si è fortificato dopo l’attentato all’Addaura del 1989, quando assumemmo la direzione non solo della collaborazione con Falcone ma anche della sicurezza di Giovanni Falcone, che guarda caso fu dismessa qualche settimana prima dell’organizzazione dell’attentato del 23 maggio 1992.
Parliamo del fallito attentato alla villa del giudice Falcone, all’Addaura, era il 1989. Lei si dedicò a quelle indagini per capire quali fossero le «menti raffinatissime» (così le definì Falcone) che organizzarono l’attentato.
Quello è un attentato pieno di ombre e di misteri. Misteri che hanno un parallelo con quello accaduto in Via D’Amelio: fu fraudolentemente distrutto il congegno di quell’attentato, quel congegno che doveva svelare se quella borsa era un intimidazione o doveva essere effettivamente utilizzata con quell’esplosivo. Perché quell’esplosivo è rimasto, però l’esplosivo senza il detonatore non porta a nulla. E il detonatore doveva essere attivato con un congegno quindi un telecomando, e probabilmente se l’esplosivo non ha nome, un telecomando e un congegno per attivare un esplosivo hanno la possibilità e danno la possibilità di risalire a chi l’ha congegnato e non a caso fu fatto esplodere. Fu distrutto da un maresciallo dei Carabinieri che rese poi false dichiarazioni ai pubblici ministeri, che accusò un funzionario di polizia che è stato condannato per queste false dichiarazioni al Pubblico Ministero. E questa è una cosa che forse alcuni ben precisi appartenenti all’Arma dei Carabinieri che si sono costruiti una nicchia all’interno di una grande istituzione, che è un’istituzione fatta da persone oneste, di gente per bene, di grandi servitori dello Stato, queste persone probabilmente non mi hanno mai perdonato di averli sgamati in quell’occasione, l’averli sgamati in tantissime altre occasioni, in numerose indagini. Non ultima l’indagine sulle talpe alla DDA di Palermo. Le indagini che hanno portato alla condanna di Salvatore Cuffaro, ma non solo di Salvatore Cuffaro ma anche di alcuni infedeli appartenenti all’Arma dei Carabinieri.
Quando fu ucciso Falcone, a Capaci nel 1992, la procura di Caltanissetta le affidò l’analisi dei computer e dei databank da cui il giudice non si separava mai. Fu proprio lei a scoprire che in epoca certamente successiva alla strage erano stati manomessi alcuni file editati da Falcone, altri modificati o cancellati, come nel caso dei dati memorizzati dell’agenda elettronica della Casio.
Sì, è un dato di fatto. Quelli che per primi hanno toccato quegli appunti, quei reperti informatici di Falcone, hanno fatto carriera e sono ai vertici della Polizia di Stato. Io che ho scoperto le loro malefatte sono stato destituito dalla Polizia di Stato, questo mi sembra basti già a dimostrare quello che è accaduto.
Cinquantacinque giorni dopo toccò a Borsellino. Cosa ricorda di quel giorno, si recò in via D’Amelio anche lei?
Sì, mi recai subito dopo a via D’Amelio, e mentre ero in via D’Amelio fui chiamato dal Capo della Polizia che mi aveva affidato un incarico, un incarico importante alcuni giorni prima. Mi chiamò il Capo della Polizia perché dovevo occuparmi, in gran segreto, quella notte, di eseguire i trasferimenti dei detenuti a Pianosa. Fu l’attuazione del 41 bis. Contrastato in quelle ore della sera, del 19 luglio, fino a quando Martelli firmò il decreto. Io posso mostrarle adesso un documento che non ho mai esibito. Io dirigevo la Zona per le Telecomunicazioni della Sicilia Occidentale, mi occupavo di tutti i servizi informatici e delle comunicazioni delle province di Palermo, Agrigento, Caltanisetta e Trapani, con delle emergenze criminali, stragi varie a Gela, Porto Empedocle, apertura di commissariati a Favara, a Palma di Montechiaro, organizzazione di sale operative, di sale d’intercettazione e interconnessione. Un lavoro impressionante, che io eseguivo da commissario di polizia, prendendo il posto di una persona che era promosso questore, quindi per darle l’idea… io ero vicecommissario, avevo due stellette quando Parisi mi nominò Direttore della Zona Telecomunicazioni. Sostituivo una persona che è andato in pensione con il grado di questore, un generale proveniente dal vecchio corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza. Quando Parisi mi conferì l’incarico di dirigente del Nucleo Anticrimine per la Sicilia Occidentale con cui organizzai un centinaio di poliziotti scegliendoli tra i migliori che c’erano, proprio per avere un braccio operativo oltre che a un braccio d’intelligence, scrissi una lettera a Parisi dicendogli che ero preoccupato per questo incarico assai difficile che si sommava a quello che già avevo e dissi: Eccellenza, io non so se sarò all’altezza di poter tener testa a questi due importanti incarichi con quello che lei mi chiede, cioè seguire dei blitz, delle operazioni di cui nessuno doveva sapere niente. E cinque giorni prima della strage di Via D’Amelio Parisi mi rispose con una lettera che adesso le mostro:
Roma 14 Luglio 1992
Caro Dottore, la ringrazio di vero cuore per le gentili espressioni che, con squisita sensibilità, ha inteso destinarmi nell’assumere la guida del Nucleo Anticrimine di Palermo.
Nell’occasione desidero ribadirLe la mia piena fiducia nelle Sue doti e nel Suo impegno e rinnovarle la certezza che nel nuovo, delicato incarico – che si somma a quello di Dirigente della Zona Telecomunicazioni della Sicilia Occidentale – saprà profondere l’entusiasmo la professionalità e la generosa dedizione che la caratterizzano.
Con fervidissimi auspici di buon Lavoro e di sentimenti migliori. Cordiali saluti.
Suo
Vincenzo Parisi
Capo della Polizia.
Questa è una dimostrazione, cinque giorni prima della strage, il Capo della Polizia, che io vedevo quasi una volta alla settimana a Roma, in incontri assolutamente riservati, con il dirigente della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera. Mi ha inteso manifestare la fiducia, che era la fiducia dello Stato. Di uno Stato che voleva combattere la mafia, ed era lo Stato dei governi Andreotti, occorre dirlo con estrema onestà a persone come Violante che nell’attaccare Andreotti hanno intenso falsificare quello che è stata la storia, perché le collusioni di Andreotti con la mafia e con i mafiosi, che ci sono, erano sicuramente in termini diversi da quelli che sono stati poi portati in un processo farsa con cui si è solo celebrato Andreotti e lo si è reso immortale per la politica italiana.
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