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E’ un contesto ampio che può avere diverse spiegazioni quello che fa da sfondo ai contatti avuti da Francesco Fortugno e dalla sua famiglia con appartenenti al clan della ’ndrangheta dei Morabito. Un contesto che i magistrati vogliono chiarire per capire se possa fornire elementi utili a spiegare i motivi per cui nove giorni fa un killer è entrato nel seggio delle primarie dell’Unione a Locri e ha ucciso il vicepresidente del consiglio regionale con cinque colpi di pistola. Omicidio di stampo politico-mafioso che alza il livello di aggressione delle cosche nei confronti delle istituzioni e che viene letto come un avvertimento a tutti gli eletti alle ultime amministrative.
Un delitto tanto eclatante che impone la necessità di non tralasciare alcun particolare, alcun indizio sia pur minimo che possa consentire di afferrare il filo giusto e arrivare sino ai mandanti. Sono migliaia i documenti già acquisiti dai carabinieri e dalla polizia negli uffici della Regione. Perché gli inquirenti restano convinti che il segnale fortissimo lanciato all’intera classe politica con questo omicidio, rimanga ancorato all’operato della Giunta e alle decisioni prese o da prendere, su affari che riguardano la Calabria e in particolare il settore della Sanità dove Fortugno era certamente uno degli amministratori più impegnati. Anche per questo si è deciso di accertare subito da chi fossero utilizzate le due utenze intestate al ministero dell’Interno che risultano contattate da un cellulare in uso alle cosche. Secondo una nota diffusa in serata dal Dipartimento di pubblica sicurezza del Viminale a chiamare era «Vincenzo Cafari, 72 anni, che risulta aver avuto incarichi presso segreterie di Sottosegretari negli anni 1968-1974 ed è stato denunciato per associazione a delinquere finalizzata al sequestro di persona a scopo di estorsione, ricettazione e falso. Tra le sue proprietà c’è lo studio dell’avvocato Giuseppe Lupis, arrestato nel 2004 quale affiliato alla cosca dei Morabito». Dall’altra parte c’era «un funzionario di polizia, ma il contenuto dei contatti fu ampiamente chiarito quattro anni fa».
I CONTATTI SUL CELLULARE – In questo quadro si inserisce la decisione di esaminare i tabulati di tutte le telefonate contenute in una perizia firmata da Gioacchino Genchi e allegata agli atti del processo che si è concluso tre settimane fa a Milano contro i vertici delle potenti famiglie criminali di Africo, i motivi di queste chiamate e soprattutto di rintracciare le registrazioni dei colloqui, come ha più volte chiesto la moglie di Fortugno, Maria Grazia Laganà. Lei stessa ha già negato che il marito avesse subito minacce o intimidazioni. Ma i magistrati restano convinti che sia necessario verificare se possano esserci state, anche in anni lontani, pressioni o tentativi di condizionamento.
E così si torna indietro nel tempo, fino al 1996. E si insegue un cellulare «347…» intestato a Domenico Attinà, arrestato una prima volta nel febbraio del 1993 in un’indagine sul traffico di stupefacenti gestito dalle famiglie di Africo e definito nella sentenza del tribunale di Milano «soggetto in stretta relazione con Morabito Giovanni fratello del “Tiradritto”», vale a dire il boss Giuseppe Morabito arrestato in un casolare dell’Aspromonte insieme al genero Giuseppe Pansera il 18 febbraio del 2004. La prima telefonata annotata nel tabulato di Attinà il 10 aprile del 1996 arriva da Mario Laganà. E’ il suocero di Fortugno, ma è soprattutto l’avvocato che fu eletto in Calabria per la Democrazia Cristiana nel 1979 e nel 1986. Quel giorno la conversazione dura 112 secondi. L’11 aprile, alle 20.09 nuovo contatto, questa volta di un minuto. E poi altre due chiamate: il 12 aprile per 45 secondi e il 28 dicembre per 54 secondi. E’ possibile che si trattasse di un rapporto professionale e per questo gli investigatori stanno verificando se Attinà l’abbia mai nominato come difensore. Forse sarà lui a poter spiegare come mai proprio il cellulare dell’indagato abbia avuto anche un contatto con il portatile di Fortugno il 22 aprile del 1996.
LA CASA DEL DETENUTO – Si arriva al 1999 e si registrano le chiamate con Giuseppe Pansera, il medico di Melito Portosalvo genero del boss “Tiradritto”. I contatti sono frequenti, ma secondo Maria Grazia Laganà hanno una spiegazione semplice: «All’epoca – ha spiegato – bisognava rinnovare le cariche nel consiglio dell’ordine e dunque era normale che fossero contattati i medici della zona». La prima chiamata la fa Pansera il 27 settembre. Dura 159 secondi. Poi ce ne sono altre. A volte chiama uno, a volte l’altro. Alcuni sono contatti di pochi secondi, altri di qualche minuto. Poi, nel novembre di quello stesso anno, Fortugno contatta l’abitazione di Leone Bruzzaniti. L’uomo è stato arrestato a Milano nel 1996, dopo essere sfuggito alla cattura ordinata dai giudici di Genova. Ed è ritenuto personaggio di primo piano all’interno della cosca, tanto da essere stato condannato a 19 anni e sei mesi che sta ora scontando nel carcere di Parma. Fortugno chiama il telefono fisso a lui intestato, tre volte: il 21 novembre alle 16.53, la conversazione dura 23 secondi; il 23 novembre alle 17.20 per 19 secondi, il 25 novembre alle 21.59 per 371 secondi. Gli inquirenti stanno cercando di capire chi occupasse la casa di Africo in quel periodo.
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