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Sms e posta elettronica. Tra buchi normativi e budget limitati delle indagini i boss hanno scoperto quanto sicuri possano essere i nuovi sistemi di comunicazione. Così, dopo le tradizionali «palombelle», i bigliettini consegnati a mano tanto cari a Bernardo Provenzano, le procure antimafia di Palermo e Messina si sono imbattute in strane intercettazioni: quando i discorsi si fanno delicati, o c’è da dare un appuntamento, si preferisce usare gli short message del Gsm, o la posta elettronica. In teoria, gli ormai famosi messaggi di testo sono intercettabili: basterebbe una semplice stampante collegata a un computer dotato di un apposito software. Ma nella pratica, solo un gestore di telefonia offre ai magistrati inquirenti questo servizio. Gli altri non sono attrezzati per farlo perché nessuna legge li obbliga. Contro questo muro di gomma sono già rimbalzate decine di inchieste arrivate al punto cruciale di un messaggino che avrebbe spiegato il come e il perché di passaggi delicati nel circuito di comando di delitti e riciclaggio di denaro. E mentre le procure antimafia lanciano appelli per adeguare il loro parco elettronico e le normative sulle intercettazioni, il crimine sfrutta pure l’ultimo ritrovato in materia di telefonini Gsm e internet: il sistema Wap. Non esiste alcun modo per intercettarlo. L’antimafia cerca di districarsi fra questi e altri problemi. Anche le classiche intercettazioni telefoniche diventano sempre più difficili. Recentemente il procuratore Pietro Grasso ha denunciato ad un convegno che uno dei principali gestori di telefonia mobile impone un tetto massimo di intercettazioni, 70 per tutto il distretto della Direzione distrettuale antimafia. Ovvero, un territorio vastissimo che va da Palermo a Trapani ad Agrigento. Davvero poche: bisogna allora scegliere, sacrificare qualche indagine a discapito di altre. Alcune recentissime intercettazioni sono state illuminanti: il consiglio che i boss si scambiano è quello di utilizzare le schede dell’ultimo gestore arrivato sul mercato. Non fornisce infatti alcun tabulato delle telefonate ed è difficilmente intercettabile. «È la legge stessa che consente che ciò possa accadere — spiega Gioacchino Genchi, consulente informatico della Procura palermitana — non prevede proprio nulla nella concessione che assegna le licenze. Nessun obbligo, nessuna prescrizione che possa facilitare l’azione di chi istituzionalmente è incaricato di tutelare la sicurezza dei cittadini, magistratura e polizia». La pluralità di gestori per la rete fissa e quella mobile ha creato una vera e propria tela di Penelope per gli investigatori che cercano di svelare i segreti della nuova mafia. Per una ragione soprattutto, in assenza di un preciso obbligo previsto nella concessione governativa, ognuno si muove come meglio crede. Così può accadere che fornisca nei tabulati solo le telefonate ricevute attraverso la sua rete e non quelle degli altri. Ogni intercettazione si moltiplica dunque per decine e decine di verifiche prima di avere un dato completo. Accade anche che qualche gestore non specifichi tutti i dati della conversazione. Uno in particolare: l’Imei, International mobile equipment identity, niente altro che la carta d’identità di ogni telefonino. È il più fedele alleato degli investigatori perché consente di seguire le tracce di un cellulare anche quando vengono utilizzate più di una scheda. Pure in questo caso, la legge non prevede alcun obbligo per i gestori. E a complicare le cose ci si mette anche la privacy: tabulati solo su carta. E come si fa per incrociare i dati di centinaia di utenze? Agli investigatori non resta che fare ricopiare i numeri sul computer. Uno per uno.
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