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Gioacchino Genchi non ha dubbi: “È chiaro che la società israeliana ha i dati dell’impiego del loro software in Italia. Non potrebbe essere altrimenti”. Abbiamo intervistato uno dei massimi esperti in materia di analisi informatica di tabulati e intercettazioni per provare a capire le funzionalità dei server di Paragon, la società produttrice del software Graphite, utilizzato per monitorare gli attivisti della Ong Mediterranea. La risposta sembra non avere sfumature di incertezze: “Il software opera sotto il diretto controllo delle funzionalità più importanti messe a disposizione dal fornitore del servizio”.
Genchi, al Copasir mercoledì scorso i rappresentanti di Paragon hanno sostenuto la possibilità di rintracciare nei database le attività svolte con i loro sistemi. È un’operazione possibile?
Certo, io credo che possano farlo eccome. Il meccanismo è sotto diversi profili simili al funzionamento delle intercettazioni telefoniche, telematiche o anche delle più comuni telecamere domestiche. Facciamo un esempio: io acquisto una telecamera che ha incluso il servizio di registrazione dei video e delle immagini su un cloud approntato dal fornitore della telecamera, a cui pago un abbonamento per poi poter vedere da remoto sul mio cellulare ciò che avviene nell’appartamento. Ciò vuol dire che io mi collego ai server della ditta che registra le immagini e le conserva. Se poi loro quei video non li cancellano dopo un certo tempo, ne fanno un uso illecito o li divulgano a terzi è un’altra storia. In questo modo siamo noi che decidiamo di metterci nelle mani della ditta presso cui abbiamo acquistato la telecamera. Nel caso di Paragon, lo Stato ha sostanzialmente preso la stessa decisione, posto che taluni profili sensibili di funzionamento del servizio non potevano non essere condivisi con la società che lo ha fornito e che sostanzialmente lo ha gestito.
Nel caso di intercettazioni dei Servizi segreti le informazioni condivise sono più delicate.
È vero, ma è inevitabile. Il fornitore del servizio non può essere totalmente escluso dal suo utilizzo, con tutto quello che ne deriva o che ne può derivare. Per farle un esempio, sarebbe come pretendere che un ginecologo possa visitare una donna senza farla spogliare.
Per le intercettazioni con software di Paragon ci sarebbe una schermatura: ossia l’azienda israeliana non avrebbe nei database numero e identità del target, ma solo un codice.
Può essere che funzioni così, che il nome o il numero del bersaglio siano stati schermati, ma non cambia nulla. Nel momento in cui attivano il servizio, tutto ciò che viene captato su quel bersaglio la società israeliana lo sa e può agevolmente pervenire all’identificazione del bersaglio e dei soggetti che lo contattano. Non sanno che si tratta del giornalista Cancellato, ma possono sapere cosa fa Cancellato con il proprio telefonino. È la stessa cosa dei messaggi scritti nelle chat di Facebook, che ne conosce certamente il contenuto. Il principio è quello delle intercettazioni delle Procure: le società che le operano conoscono i target.
Per lei il governo dovrebbe chiedere a Paragon di verificare nei loro database se Cancellato è stato un bersaglio?
Certo, ma dovrebbero chiederlo anche l’autorità giudiziaria. I magistrati non possono chiedere ai Servizi segreti dati coperti dal segreto di Stato, ma possono benissimo attivare una rogatoria in Israele e sapere da Paragon i bersagli intercettati. E la società, a differenza dell’intelligence italiana, non può opporre il segreto di stato.
Secondo lei c’è un tema di pericolosità della condivisione con società estere di notizie così delicate?
In questo momento storico assolutamente no. Tutta la tecnologia italiana è gestita da sistemi network internazionali: la telefonia, i satelliti, la rete elettrica. Non è che si può fare l’autarchia tecnologica: se così facessimo non potremmo usare il nostro cellulare né in Italia, né all’estero.
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