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Il tribunale del riesame ha revocato l’obbligo di firma imposto dal gip al poliziotto Fabrizio La Mantia, 42 anni, indagato nell’operazione «Dirty Cars», sul riciclaggio di automobili di lusso, rubate a Napoli e trasportate a Palermo, anche grazie – secondo la tesi dell’accusa – alla complicità di appartenenti alle forze dell’ordine.
Nei confronti di La Mantia, difeso dall’avvocato Gioacchino Genchi, la procura aveva chiesto l’arresto, ma il giudice si era limitato a imporre l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, adesso revocato dal collegio presieduto da Alessia Geraci, a latere Cristina Denaro e Rocco Cocilovo. Un punto a favore della difesa del poliziotto, indagato nell’inchiesta che il 15 febbraio scorso ha coinvolto sedici persone accusate a vario di titolo di una maxi truffa su auto di lusso rubate e poi riciclate.
La decisione è stata adottata dopo l’incidente probatorio – durante il quale non sono mancati i colpi di scena – sui dispositivi elettronici dell’agente indagato, sequestrati dalla squadra mobile e custoditi nell’ufficio corpi di reato del tribunale. L’avvocato Genchi, che in passato aveva svolto l’attività di super consulente informatico per conto di varie procure e uffici giudiziari, ha fatto analizzare anch’egli, nell’ambito di complesse indagini difensive di tipo tecnico, i computer e gli smartphone usati da La Mantia.
Durante il sequestro, quando i cellulari dell’indagato si sarebbero dovuti trovare appunto sigillati e dunque inaccessibili, qualcuno li aveva accesi e, secondo la difesa, avrebbe agito nelle chat in orari notturni. L’avvocato Genchi ha allora ottenuto dal gip l’esecuzione di un incidente probatorio, che ha impedito la consulenza unilaterale ordinata dal pm: il perito nominato dal giudice ha accertato che, in effetti, dopo il sequestro, erano stati eseguiti diversi interventi non autorizzati nelle chat di WhatsApp. Era così risultata alterata l’integrità e la completezza dei messaggi, oltre al contenuto dei backup presso il cloud di WhatsApp, perché il cellulare, mentre si trovava sequestrato, era stato riacceso, manipolato e nuovamente spento più volte.
Ieri il tribunale del riesame ha accolto la richiesta dell’avvocato Genchi annullando la misura cautelare a carico dell’agente in servizio all’ufficio prevenzione generale della Questura e che secondo la difesa è del tutto estraneo alle vicende che gli sono state contestate.
A febbraio La Mantia era rimbalzato alle cronache, insieme ad altri quindici indagati, tra cui il carabiniere Giuseppe Lo Casto, per aver coperto una truffa con finti furti di auto di lusso. La Mantia è indagato per falso in atto pubblico, ricettazione e simulazione di reato. Al vertice dell’organizzazione ci sarebbero i fratelli Gaetano, Carmelo e Antonino Cangemi, tre giovani che dal cuore della Kalsa avrebbero architettato un sistema apparentemente infallibile. Un giro che li faceva guadagnare due volte: prima con i risarcimenti delle assicurazioni, poi con la rivendita dei veicoli ripuliti e reimmatricolati grazie anche alle coperture che erano riusciti a conquistare e ad altre complicità su cui ancora sono in corso indagini.
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