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Scoop pericolosi

«Ecco come le anticipazioni della stampa hanno fatto morire l’inchiesta “Why not”». Parla Gioacchino Genchi, consulente del pm Luigi de Magistris. Rimosso dall’incarico dopo la bufera sul ministro Mastella

Left Avvenimenti - 30 novembre 2007 - di Fabrizio Colarieti

Screenshot 2019-05-31 22.42.54Di seguito l’intervista rilasciata da Gioacchino Genchi al magazine Left Avvenimenti. Qui il testo in pdf.  

 

Se fosse tutta colpa di uno scoop pilotato? E se quell’indagine fosse andata fino in fondo, cosa sarebbe accaduto? Un lettore inglese direbbe semplicemente “why not”, perché no.

Sembra che a Catanzaro le cose siano andate più o meno così. C’erano due personaggi da fermare a tutti i costi: un giudice troppo perspicace, Luigi de Magistris, e un superconsulente dall’udito sopraffino, Gioacchino Genchi. Due che lavorano in segreto, lontano dal clamore. Il giudice indaga da dicembre 2006 su un colossale intreccio politico-affaristico- massonico, teso a distrarre fondi europei. Il cyber-poliziotto Genchi arriva a Catanzaro a fine marzo.

Ognuno fa il proprio lavoro, compreso Genchi che fino a quel momento era famoso, ma non “famigerato”. Nota è la sua attività di consulente informatico e analista di traffici telefonici. In questo campo Genchi è considerato uno dei massimi esperti. Non ama la pubblicità, se ne sta dietro ai suoi computer, chiuso per ore dentro la casa-ufficio di Palermo che qualcuno ha definito un bunker, pur avendo finestre e tante piante, che Genchi cura amorevolmente. Era tutto segreto fino a quando, appunto, qualcuno ha acceso la luce nella camera oscura. Un dispaccio dell’agenzia Il Velino del 30 luglio, a firma di Vittorugo Mangiavillani, accende la miccia. Stupisce, pure, uno strano affondo al procuratore generale di Palermo, Salvatore Celesti, che con le vicende di Catanzaro non c’entra nulla. Da quel giorno Il Velino ma anche Libero almeno in altre tre occasioni anticipano fatti e nomi, compresa l’iscrizione nel registro degli indagati del ministro della Giustizia, Clemente Mastella, e la stessa avocazione dell’indagine. L’agenzia, giorni prima, riporta addirittura le argomentazioni giuridiche di quello che poi sarà il provvedimento di avocazione. Lì per lì, a Catanzaro, il pm napoletano e il consulente siciliano non capiscono cosa stia accadendo. Saranno i fatti però a travolgerli, lancio dopo lancio. Sono loro il bersaglio, e in poche ore dell’inchiesta “Why not” rimane ben poco, se non il sospetto che a qualcuno quel l’indagine dava veramente fastidio.

Genchi ha un caratterino niente male. È ironico, ha dentro di sé tanta Sicilia: quella dei cannoli e dei golosi “mannetti” della sua Castelbuono. Purtroppo, per chi s’imbatte nella sua tastiera, non è così. La sua mente è veloce, analitica e maniacalmente precisa. A lui, da sempre, la pistola e le manette non sono mai servite. Per il suo lavoro gli bastano computer, cuffie e qualche altro arnese tecnologico. Usa Skype e Messenger per dialogare con il mondo perché li ritiene i sistemi più sicuri per comunicare, e se lo dice lui c’è da fidarsi. Il resto è ragionamento, analisi, profili da tracciare, dati da incrociare, bandierine da posizionare su immagini satellitari e relazioni da scrivere, anche di mille pagine, che diventano ordinanze cautelari e poi sentenze. Un lavoro lungo, difficile, che soddisfa un bel po’ di procure che affidano accertamenti tecnici e dati da analizzare a Genchi e ad alcune decine di suoi collaboratori di cui si avvale da tanti anni.

È l’unico a saperlo fare? «I risultati, le condanne, ma anche le assoluzioni – dice a left senza superbia – sono numerose grazie alle mie consulenze». Del resto parla da sé il curriculum di questo testardo siciliano, definito dal Guardasigilli Mastella un «mascalzone».

Per esempio in questi giorni sta lavorando al caso della piccola Denise Pipitone, scomparsa da Mazara del Vallo tre anni fa, ma di questo non dice una parola perché Genchi, pur avendo un ottimo rapporto con i giornalisti, non ama violare i segreti e bruciare le indagini. Motivo per cui si è infuriato quando è stato accusato di aver passato a “radiocarcere” la sua relazione sulle utenze di Luigi Bisignani (tessera P2 numero 203, ndr), uno dei personaggi chiave dell’indagine “Why not”, insieme al deux ex machina Antonio Saladino. Per la cronaca, quella relazione zeppa di numeri riservati è arrivata alla redazione di “radiocarcere” completa del frontespizio e del timbro del tribunale di Catanzaro, con la data del 26 luglio, quando Genchi aveva già depositato, da un giorno, quel lavoro. Quasi contemporaneamente, quella relazione arriva – oltre che alla Procura, da dove probabilmente è uscita – anche all’agenzia Il Velino, che tre giorni dopo ne dà notizia, e ai quotidiani Libero, La Stampa, Panorama e Calabria Ora. Veniamo a “Why not”. Genchi ci racconta di aver ricevuto l’incarico da de Magistris il 21 marzo: «Dovevo acquisire e analizzare i dati di traffico telefonico a riscontro delle dichiarazioni rilasciate da Caterina Merante (teste chiave dell’inchiesta, ndr)». Insomma, siamo alle solite, e forse Genchi si annoierà anche un po’ a fare sempre le stesse cose: analizzare le intercettazioni (anche se tecnicamente non intercetta nessuno, ndr), i tabulati, le acquisizioni documentali, le risultanze dei sequestri informatici e tracciare un profilo di analisi. Dietro quei numeri – non sono poi molti quelli intercettati su ordine di de Magistris – c’è tanta politica ma anche, secondo lo stesso pm, tanto malaffare. Genchi, che non guarda in faccia a nessuno, fa anche questa volta il suo lavoro. È tutto dentro alcune relazioni super riservate. Ma il consulente non sa che qualcuno è già pronto a divulgarne il contenuto. Un modo singolare di fare informazione. Da quel momento, quali che siano i contenuti delle relazioni, Genchi finisce nel tritacarne. Ci provano in tutti i modi: tornano perfino a quando Celesti lo incaricò di indagare sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, cioè quando scovò nei tabulati dei boss alcune utenze riconducibili ai Servizi. Ma lui si difende come può, apre un blog, e il piano riesce a metà. Tutti sanno tutto, grazie ai comunicati ufficiali de Il Velino. Ma c’è altro. Per esempio – secondo quanto abbiamo appreso – dentro quelle carte, che in Calabria dovevano rimanere segrete, ci sono finiti diversi giornalisti i cui ruoli e movimenti, attorno alle principali pedine dell’inchiesta di Catanzaro, erano sotto la lente della magistratura. Non solo i politici, quindi, avevano un buon motivo per temere l’evoluzione di quell’inchiesta. Genchi va avanti per la sua strada, continua a lavorare e a difendere la sua indipendenza. «Ormai sono abituato a non stupirmi più di quello che succede a Catanzaro. Mi stupisco – prosegue l’ex consulente di de Magistris – solo del comportamento di chi, da tempo, avrebbe dovuto stupirsi, e non l’ha ancora fatto. Se un giorno qualcuno volesse veramente capire cosa è accaduto a Catanzaro, non avrà bisogno né di indagare né delle dichiarazioni di pentiti. Gli basterà mettere in ordine alcune agenzie e articoli usciti su testate locali e nazionali, e leggerli nello stesso ordine cronologico degli eventi che quelle pubblicazioni hanno anticipato e poi determinato. Un articolo – conclude Genchi – può rilanciare un’importante indagine giudiziaria. Ma in certi casi ne può causare la fine».

 

l’identikit. Da Palermo a Catanzaro

Gioacchino Genchi, 47 anni, nasce a Castelbuono (Pa). Radioamatore e grande appassionato di elettronica, nonostante una forte vocazione umanistica, frequenta un istituto tecnico e poi si laurea con lode alla facoltà giurisprudenza dell’università di Palermo. Nel ‘85 vince un concorso per vicecommissari della polizia e due anni dopo è in servizio nel capoluogo siciliano. A soli 28 anni il capo della polizia, Vincenzo Parisi, gli affida la Direzione della zona telecomunicazioni del ministero dell’Interno per la Sicilia occidentale. Genchi inizia a collaborare con il capo della Mobile, Arnaldo La Barbera. Svolge delicate indagini con Falcone e Borsellino e sperimenta sofisticate tecnologie. Si occupa del fallito attentato all’Addaura e contribuisce all’individuazione del covo del mafioso, poi pentito, Totuccio Contorno. Tra i primi a sperimentare una rete mobile di intercettazione, il suo contributo sarà fondamentale per la cattura del boss Pietro Vernengo e di altri latitanti. Dopo le stragi del ’92, Genchi partecipa alle indagini sugli attentati fornendo un contributo decisivo: scopre che la linea telefonica dell’abitazione della madre di Borsellino, in via D’Amelio, era intercettata dagli assassini. Analizzando il traffico telefonico del boss Gaetano Scotto, è sua anche l’intuizione che gli stragisti avessero comandato l’esplosione della stessa autobomba dal Monte Pellegrino che domina via D’Amelio. Genchi scoprirà, inoltre, che su quella collina, all’interno del castello Utveggio che ospita un ente regionale, il Cerisde, vi era una struttura coperta del Sisde. Dopo Capaci gli vengono affidate le indagini informatiche sul computer e sull’agenda elettronica di Falcone, violati dopo la sua morte. Genchi, su incarico della procura di Caltanisetta, rintraccia i fili nelle memorie e ricostruisce gli ultimi giorni di vita del giudice. Nel 2000 va in aspettativa con il grado di vicequestore, e si dedica alla libera professione, collaborando con i tribunali di mezza Italia.