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RAPINA DI SERVIZIO

Rivelazioni. Intelligence e crimine organizzato a Palermo - Un cellulare dimenticato durante un furto. Un ricercato che telefona ai carabinieri. Talpe nell'antimafia. L'erede di Cosa nostra. I segreti di una banda di ladri portano lontano

News - 29 marzo 2006 - di Edoardo Montolli

È bastato che la polizia lasciasse acceso il telefono, perso dai rapinatori durante il colpo in una villa, perché cascassero in trappola. Chiamando. Poi il superconsulente della procura di Palermo Gioacchino Genchi, ripercorrendo i tracciati dei cellulari, ha dato un volto ai sei della banda, arrestati grazie alle indagini coordinate dal pm Maurizio Agnello. Tutti ladri professionisti dietro la regia dei fratelli Giuseppe e Salvatore Di Lorenzo che quel 21 agosto del 2002, aprirono con la fiamma ossidrica il bunker, cavandone 100mila euro.

Prima di incappare nella proprietaria e di fuggire perdendo il cellulare, ogni cosa era stata pianificata: Filippo Quatrosi, detto Fifì, era il basista. Gente scafata. In un palazzo abbandonato avevano 4 ricetrasmittenti sintonizzate sulle frequenze della questura, scanner, 120 chiavi elettroniche. E amici strani: uno che vende pc e telefoni, ma che nella vita è funzionario di sicurezza in banca. Hanno i cellulari intestati a suoceri o fantasmi. Quello di Giuseppe Di Lorenzo, lasciato sulla scena del crimine, era intestato a un detenuto dell’Ucciardone. Ma con il maresciallo dell’Arma Matteo Di Giovanni, il giorno prima della rapina, si sente sei volte. Un ingenuo, forse, Di Giovanni, come dimostra un suo patteggiamento per ricettazione di telefoni. Però dovrebbe sapere che Di Lorenzo è ricercato: la Procura della Repubblica di Velletri notifica il provvedimento ai carabinieri di Torretta il 12 luglio 2002. Ma, inspiegabilmente, verrà eseguito 40 giorni dopo, nientemeno che il giorno successivo alla rapina, quando Di Lorenzo si costituirà. Col maresciallo, Di Lorenzo si sente pure il giorno del colpo. Non ha paura, anzi, la mattina fatidica chiama più volte il 112, quelli che dovrebbero arrestarlo. Né ha paura suo fratello Salvatore, con il suo telefono “coperto”: Genchi scopre che lì passano centinaia di contatti con Arma, questure, uffici del Sisde di Roma e infinite utenze personali di forze dell’ordine. Ed è solo l’inizio. Tra chi chiama il telefono perso da Giuseppe, c’è il numero di un agente della prevenzione generale della questura di Palermo. Un cellulare che scotta: ha prima ospitato altre due schede, una intestata al Centro ricerche e studi direzionali – sospettato in passato di essere una base Sisde e il punto da cui si azionò il telecomando-bomba della strage di via D’Amelio –, l’altra a un poliziotto del servizio scorte. E il telefono scotta perché quelle due utenze (apparecchio e carta sim) erano in rapporti anche con l’ex ispettore di polizia Marcello La Cara, radiato per aver favorito la latitanza dei rapinatori Andrea e Giuseppe Colombo, che il 3 agosto del 2001 assassinarono brutalmente il metronotte Francesco Mannino.

Nello strano gioco, dove guardie e ladri stringono amicizia, si intersecano le storie dei presunti traditori dello Stato: durante la latitanza di Giuseppe Colombo, Francesca C., la sua amante, parlò ripetutamente al telefono con il maresciallo dei Ros Giorgio Riolo, accusato di essere la “talpa” che avvertì Giuseppe Guttadauro, boss di Brancaccio e intimo di Bernardo Provenzano, che lo stavano spiando. Il fatto che il telefono e la sim che chiamarono Giuseppe Di Lorenzo quel 22 agosto siano poi gli stessi che chiamarono Francesca C. durante la latitanza dei Colombo, fa sospettare a Genchi che all’epoca quel cellulare lo usassero proprio Colombo o La Cara. Come dire, un po’ le guardie, un po’i ladri. Coincidenze: da Carini arrivano i Di Lorenzo, a Carini si nascosero i Colombo. I Di Lorenzo sono stati confidenti dello Stato, poca roba, e forse qualche numero delle forze dell’ordine potevano averlo. Ma il fatto è che non erano confidenti “solo” dello Stato. Perché a Carini c’è qualcun altro: il nome Carlo era scritto su un foglio giallo a casa di Salvatore Di Lorenzo. Si tratta di Carlo Puccio, nipote di Salvatore Lo Piccolo, latitante da ventitré anni. Dai più considerato l’erede al trono di Cosa nostra. Hai voglia a cercarlo.

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