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Il testimone dovrà essere sentito, il tribunale non revoca l’ordinanza. E questo sebbene Aymen Quafi sia stato raggiunto da un decreto di espulsione e per questo dovrebbe – in teoria – non essere più sul territorio nazionale, ma tornato in patria.
Eppure il tunisino è una pedina essenziale, nel processo contro il ginecologo Biagio Adile, ex primario oggi imputato di violenza sessuale ai danni di una paziente, connazionale di Quafi: le difficoltà di rintracciare il teste avevano indotto sia la Procura che la parte civile a chiedere la revoca della deposizione dell’uomo, ma ieri la seconda sezione del Tribunale, presieduta da Lorenzo Matassa, ha accolto le tesi dell’avvocato Gioacchino Genchi e autorizzato la convocazione del cittadino tunisino, per il 20 gennaio prossimo, a cura dello stesso difensore. Che però dovrà ottenere, per trovarlo, la collaborazione della Procura.
Difficile dire se da ora ai prossimi due mesi sia possibile portare in aula Aymen Quafi, ma dalla sua testimonianza potrebbe dipendere l’intero dibattimento, in cui Adile è accusato di avere abusato della paziente, oggi trentenne, madre di una bambina, arrivata in Italia su un barcone e sottoposta, prima di andare da lui, a otto operazioni, non riuscite o non del tutto riuscite, per una rarissima malformazione congenita.
Il primario, già in servizio a Villa Sofia e considerato uno dei migliori nel campo dell’uroginecologia, avrebbe approfittato – sostiene il pm Giorgia Righi – dello stato fisico della donna e della sua assoluta necessità di essere curata, per imporle due prestazioni sessuali contro la sua volontà. Un fatto risalente al 2017, quando la persona offesa, costituita nel processo con l’assistenza dell’avvocato Michele Calantropo, aveva 28 anni e rischiava l’asportazione dell’utero, in altre parole l’impossibilità di avere altri figli.
La tesi degli abusi sessuali è contestata con decisione dall’imputato e dal suo legale, Gioacchino Genchi, ex superperito informatico ed ex dirigente di polizia: la difesa parla di rapporti consensuali. E lo fa dati – informatici e telefonici – alla mano. In sostanza, secondo la lettura alternativa dei fatti ci sarebbe stato un tentativo di ricatto, con l’obiettivo di ottenere un’operazione devastante come l’isterectomia (appunto l’asportazione dell’utero) o una certificazione fasulla, che portasse allo stesso risultato: la dichiarazione di invalidità al 100%, che avrebbe garantito alla cittadina tunisina il sostegno economico da parte dello Stato.
Reggerà, questa ricostruzione? Genchi la supporta con alcuni elementi, partendo dal file audio – registrato dalla persona offesa col cellulare – su cui è rimasto impresso un rapporto orale tra i due, consumato dopo le cure che Adile avrebbe somministrato alla paziente. Un primo episodio sarebbe avvenuto in ospedale, il secondo – quello registrato – nello studio privato del medico.
Una macchinazione, afferma la difesa, che si basa sull’analisi del contenuto del cellulare della donna ed elenca i contatti telefonici, che documentano la richiesta di un secondo incontro dopo la prima violenza e una telefonata dopo il secondo episodio. Tutto sarebbe collegato al rifiuto di Adile di assecondare il disegno della donna, agevolata in questo dal suo amico Quafi. Oltre al sostegno economico da parte dello Stato, la tunisina avrebbe potuto ottenere anche il permesso di soggiorno in Italia «per ragioni umanitarie e per motivi medici e di salute».
Perché tornare a cercare il violentatore? Certo, potrebbe esserci stata la volontà della vittima di rimproverargli l’accaduto, di chiedergli conto e ragione, anche di raccogliere prove concrete contro di lui (è la tesi del pm e della parte civile), ma il risultato, secondo il legale, sarebbe quanto meno singolare: «La parte offesa – scrive l’avvocato Genchi in una memoria consegnata al tribunale – dopo la prima asserita violenza sessuale del pomeriggio ha ripetutamente cercato di mettersi in contatto con l’imputato e si è volontariamente recata da lui il pomeriggio del giorno successivo. Col proposito di essere nuovamente violentata».
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