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Quando lo avevano trovato sdraiato vicino al letto, un coltello da cucina di fianco, Giuseppe Lo Cicero, 47 anni, presidente di una piccola cooperativa palermitana, aveva il cranio sfondato. Ucciso, secondo il medico legale, da un colpo sferrato con una statuetta di ceramica e legno. Qualcuno si era accanito su di lui con tre iniezioni di valium e una di veleno, dopo aver tentato di soffocarlo con un sacchetto di plastica e di strangolarlo con le mani e con la cintura dell’accappatoio. «La stessa fine che i congiurati fecero fare a Rasputin», chiosò il gip di Palermo Giacomo Montalbano per indicare la ferocia di quel delitto. Era la notte del 15 aprile del 2004. Due anni più tardi, il 5 giugno, ci sarà l’incidente probatorio della coppia ribattezzata gli “amanti diabolici” davanti al gip Antonella Consiglio: Elena Smeraldi, 53 anni, moglie di Lo Cicero, e Gianfilippo Marotta, 51, dipendente della cooperativa dei coniugi. Perché, cosa accadde quella notte è ancora tutto da stabilire.
«Pigghiò u cuteddu, io m’avia a difendere…», Così Elena dice al cugino del marito che chiama subito dopo il massacro. Lo racconterà tre ore più tardi anche ai carabinieri: lo Cicero, affetto da cirrosi epatica e da encefalopatia, preso da una sorta di raptus ha tentato di aggredirla con un coltello, e lei l’ha ucciso colpendolo con la statuetta raffigurante la Pietà di Michelangelo.
Ma non è il cugino la prima persona che Elena ha chiamato dopo l’omicidio. No, il primo ad arrivare è Gianfilippo Marotta che, appena viene interrogato, conferma la tesi della donna. Ma poi subito crolla: «È la mia amante. Abbiamo una relazione sentimentale da 16 mesi. L’ho ucciso io, è solo colpa mia». Dice che si vedono in ufficio, che Elena è passionale e che il marito la tratta «meschinamente, la prende come e quando vuole», salvo sostenere anche che la coppia non ha rapporti da due anni. E che lui, che si accusa dell’omicidio, era pronto a donare nientemeno che il 60% del suo fegato per salvare la pelle di Lo Cicero. Poi, però, afferma che lui, quella sera, chiamato da Elena, gli ha fatto iniezioni di Valium e di insetticida. Poi era pronto a far sesso con la donna in cucina, ma il marito, destatosi, gli ha visto dare un bacio alla moglie. Ha preso un coltello. E lui allora ha reagito. Il suo racconto cambia più volte. Ma la sostanza è che lui l’unico responsabile: «Provai con le mani a stringergli la carotide, ero fuori di me. Non riuscendo sono andato nel bagno e prendevo la cintura dell’accappatoio e gliel’avvolsi intorno al collo tirando da entrambe le parti». E fattosi passare una statuetta dalla donna, gli avrebbe fracassato la testa sul letto, mentre Elena lo teneva per i piedi.
Terza versione: ha visto Elena con lo sguardo sofferente, ha pensato fosse colpa del marito e ha deciso di assassinarlo, pregando Padre Pio mentre lo strozzava. «Il mio amante? È falso, sono stata io», ribatte la donna ai carabinieri. Il pm Antonio Ingroia vuole vederci chiaro. E li arresta entrambi. Altro che legittima difesa, si parla di omicidio premeditato. Storie di corna e di coltelli.
Sarà. Certo è che lei tace, Marotta invece decide di andare oltre: Lo Cicero quella mattina stessa lo aveva licenziato e glielo aveva fatto riferire dalla moglie. Forse subodorava della loro relazione. E lui aveva paura di parlargliene: «Lo Cicero aveva precedenti per droga, ma soprattutto era uno da cui stare accorti: visto che era parente del noto clan mafioso dei Lo Cicero». Odio e amore: sembra finita qui, una perfida, ma semplice storia di amanti diabolici. E invece, troppe cose non tornano.
Quattro mesi dopo Marotta cambia di nuovo versione: «Io di quella donna mi ero invaghito, infatuato, cioè me lo portavo dentro da un po’ di tempo ma non l’ho mai dimostrato, poiché sarei andato incontro a seri guai». È una lunga lettera quella che Marotta scrive dall’Ucciardone al suo avvocato Angelo Rossi. Annuncia che lui non ha ucciso proprio nessuno, nemmeno ha mai dato un bacio a Elena. Ma che si è autoaccusato dell’omicidio per non vederla andare in galera: l’amava troppo, anche se nemmeno lei lo sapeva. Sottoposto a perizia psichiatrica, risulta affetto da “delirio erotico” complicato da totale infermità mentale. Non è però così per il perito del pm Ingroia, anzi. L’esito è opposto. Nel frattempo il Racis di Messina analizza tutti i reperti e le macchie di sangue trovate nella casa.
Passano altri sette mesi e il 30 marzo del 2005 Elena Smeraldi per la prima volta si decide a parlare. Una versione ancora più strana. Con una premessa: «Gesù Cristo sa la verità! Mi sottoponga alla macchina della verità!» e giura al pm Ingroia che era stata lei la mattina del 14 aprile a licenziare Marotta, furiosa che lui dicesse a tutti che voleva averla. Beccandosi anche una minaccia: «Ricordati: non un funerale, ma due funerali».
La sera, dopo cena, il marito era già a letto prima ancora di mettersi a tavola, Elena ci aveva ripensato. Telefona a Marotta e gli dice di venire a casa per chiarire. Prende del Valium e si addormenta: «Poi ricordo soltanto l’immagine dell’espressione molto agitata del Marotta che mi diceva queste parole: “Aiutami, aiutami! Tuo marito è venuto col coltellaccio e tu gli hai dato la statua in testa”». Marotta, vendicativo, sarebbe entrato in casa usando le chiavi che al Capodanno precedente gli aveva dato Lo Cicero per curare il cane durante le vacanze. Un cane, dettaglio grottesco in una storia grottesca, rubato un anno prima e che il legittimo proprietario riconoscerà nel servizio del tg sul delitto.
Da amanti a rivali. Prima uno esclude l’altro, poi uno accusa l’altro. Ma la vera sorpresa arriva dall’esito dell’esame tossicologico sul cadavere: quello che ha nel sangue è topicida. E soprattutto dagli esami del Racis: risultano quella sera presenti sulla scena del crimine cinque persone diverse che hanno fumato altrettante sigarette. Ed ecco scattare le nuove richieste della Procura: i prelievi sugli indagati – nel frattempo usciti di prigione per decorrenza dei termini – per confrontarne il Dna con quello rinvenuto sui reperti. Lei accetta, lui no: i carabinieri si devono arrangiare con lo spazzolino che gli trovano in casa. Entrambi intanto cambiano avvocato. E non sono gli unici oggi ad avere bisogno di un difensore. Perché da Ingroia parte anche una richiesta per controllare i cellulari e i tabulati telefonici di tutte le persone che la sera precedente al delitto entrarono in quella casa, per vagliarne alibi e spostamenti. Ma soprattutto per trovare una soluzione al più inaspettato dei colpi di scena: già, perché il Racis non ha trovato solo saliva sui mozziconi di sigarette. In casa Lo Cicero c’è anche una macchia di sangue rinvenuta sulla trapunta che copriva il cadavere. Sangue diverso da quello di Marotta e di Elena. Appartiene a un uomo. È un famigliare stretto di Lo Cicero. La verità su quel delitto è ancora tutta da scrivere.
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