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Romanzo Quirinale

Il Moralista - 20 giugno 2012 - di Francesco Maria Toscano

E’ spassosissimo leggere in questi giorni i pensosi commenti dei tanti scribacchini di regime che cercano in tutti i modi di creare una cornice di legalità intorno alle acrobazie quirinalizie sulla vicenda della trattativa Stato- mafia.

Dal professor Carlo Federico Grosso in giù, in tanti hanno sentito il bisogno di giustificare le telefonate degne del Bagaglino intercorse tra Loris D’Ambrosio, consigliere di Napolitano, e il “turbato” Nicola Mancino.

Questa patetica levata di scudi in difesa dell’indifendibile è comunque utile per fare uscire autonomamente allo scoperto tutte quelle figure, ovunque annidate, che evidentemente temono la ricerca della verità.

Per capire eventuali cointeressenze, ai pm di Palermo probabilmente basterebbe cominciare a seguire questo fiume di ridicole e impacciate dichiarazioni che, involontariamente, allargano da sole il raggio e la portata dell’inchiesta.

Tutti gli Azzeccagarbugli di questo mondo, per quanto uniti e solidali per ragioni intuibili, non possono  infatti che disintegrarsi dinanzi alla lettura delle intercettazioni che, fortunatamente, sono così chiare da non meritare né esegesi né interpretazioni.

Per la verità una delle  intercettazioni pubblicate oggi sul Fatto Quotidiano, concernente un ermetico dialogo tra Nicola Mancino e il magistrato Nello Rossi, chiarissima non è.

I due si parlano “sobriamente”, facendo anche riferimento ad un certo Lombardi che, ipotizza il giornalista, potrebbe essere individuato nella figura di un magistrato già finito nelle maglie dell’inchiesta P3.

Tutti dialoghi leciti, per carità, che però aiutano meglio la definizione del contesto, e rendono meno enigmatica l’analisi della pubblica sconfessione dello stesso Nello Rossi ai danni dei colleghi Ingroia eDi Matteo, titolari giustappunto dell’inchiesta sulla trattativa.

Il magistrato Nello Rossi inoltre, per completezza di analisi, è lo stesso  che ha avviato, insieme al collega Achille Toro, poi finito al centro dell’inchiesta “Grandi Eventi”, una indagine contro Gioacchino Genchi, consulente informatico che, quando si dice la combinazione, da anni chiede verità per le povere vittime delle stragi e, tra l’altro, ha per primo spiegato il significato delle bombe nelle chiese romane di San Giovanni e San Giorgio del 1993.

Insomma, nulla di quello che accade sorprende per davvero. Più seria l’argomentazione invece di chi, senza pateticamente provare ad arrampicarsi sugli specchi, prova a giustificare, non tanto  i ridicoli tentativi di interferire sull’inchiesta palermitana, quanto l’essenza stessa dell’indagine, e cioè la trattativa.

Giovanni Pellegrino ha scritto per l’Unità un pezzo imbarazzato da titolo “La trattativa Stato-mafia? Mossa per stroncare i corleonesi”. La tesi di Pellegrino, al netto degli slalom, è che la ragion di Stato non si processa nelle aule dei tribunali. E’ giusto ricordare come il nostro Paese ha sacrificato in passato la vita di uno statista del calibro di Aldo Moro, proprio sull’altare di quella inflessibilità richiesta all’epoca in primo luogo da Dc e Pci, partiti di riferimento di Mancino e Napolitano.

Bisogna poi domandarsi se la ragion di Stato rappresenti una giustificazione sufficiente per i familiari del giudice Paolo Borsellino, vittima innocente di manovre che la sua anima integerrima non contemplava.

La stessa domanda bisogna poi girarla a quei figli degli agenti di scorta massacrati dal tritolo, cresciuti senza padre per amore di un malinteso concetto di patria.

Lo stesso interrogativo giratelo infine ai parenti delle vittime delle bombe in continente del 1993 ;chiedete pure a quella madre che ha perso una bimba di pochi mesi, e poi fateci sapere.

Spiegate infine perché tutte quelle figure che sembrano avere avuto un ruolo nella trattativa, hanno  ricoperto incarichi di prestigio anche nella seconda Repubblica, mentre gli altri politici scomparivano.

Se non ci riuscite, almeno provateci. Il diritto dello Stato di pretendere per sé il monopolio della giustizia e dell’uso della forza è lecito solo nella misura in cui le istituzioni conservano l’etica della responsabilità. Altrimenti la giustizia diventa necessariamente arbitrio e qualunque processato si trasforma automaticamente in perseguitato.

Questo è il momento di fare piena chiarezza.

Tra un anno verrà infatti eletto il nuovo Presidente della Repubblica, e la pubblica opinione è chiamata a vigilare sulla scelta.

La speranza è che non salga sul Colle più alto un uomo già protagonista della terribile stagione a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica.

Sarebbe un colpo decisivo e mortale per la tenuta della nostra fragile democrazia.

da “IL MORALISTA” di mercoledì 20 giugno 2012