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La battaglia vinta dal figlio di Borsellino

La forza della normalità contro la rabbia e il dolore. Perché se ognuno di noi facesse il proprio dovere la mafia, oggi, sarebbe meno forte

Di Palermo - 20 luglio 2012 - di Vincenzo Marannano

Quel maledetto 19 luglio avevo dodici anni e mezzo, un’età in cui si è troppo piccoli per capire ma già abbastanza grandi per non restare indifferenti. Ricordo ancora, come se fosse ieri, i titoli del giornale radio mentre in macchina con i miei zii tornavo dal lido di Cefalù. E ricordo pure che una volta a casa corsi ad accendere la tivù per provare a capire. Già allora erano tante le domande a cui non riuscivo a dare una risposta, ma pensavo che fosse più un problema mio, legato alla mia età e alla mia conoscenza del mondo a quei tempi.

Però la reazione fu ugualmente forte. Non so spiegare bene le ragioni, forse perché accanto a me c’erano dei cugini nati e cresciuti in Germania, lontani anni luce da quella Sicilia terribile, ma oltre al dolore la strage di via D’Amelio suscitò in me anche una profonda rabbia che è montata con gli anni. Da siciliano, e da palermitano acquisito, ho sempre provato infatti un certo risentimento nei confronti di uno Stato che ancora oggi non è in grado di dirmi cosa è successo veramente quel 19 luglio e in quei maledettissimi 57 giorni che separarono la strage di Capaci da quella di via D’Amelio.

Sono passati vent’anni. Già, venti lunghissimi anni. E se qualcuno, allora, mi avesse detto che dopo tutto questo tempo saremmo stati ancora qui a chiederci cosa è successo l’avrei preso per pazzo. Eppure c’è chi ci crede ancora, che lotta ogni giorno per arrivare alla verità per restituirla a tutti noi.

Come Salvatore Borsellino, uno che spesso viene snobbato dai media perché non ama l’ipocrisia dei filtri tra ciò che pensa e ciò che poi effettivamente dice. L’ho incontrato domenica scorsa. Siamo stati un paio d’ore a chiacchierare sotto l’ulivo di via D’Amelio. Mi ha raccontato dei suoi cinque anni — dal 1992 al 1997 — trascorsi in giro per l’Italia a parlare del fratello, del momento in cui oltre alla madre ha perso pure la speranza, dei dieci anni di silenzio alla ricerca della verità, della trattativa Stato-mafia, del nostro amico Gioacchino Genchi che veniva preso per pazzo quando, in tempi non sospetti, diceva che c’erano di mezzo i servizi deviati e di quell’agenda rossa che ormai è diventata il suo chiodo fisso. «Perché se fosse rimasta dov’era avrebbe potuto dirci tante cose anche su chi ha avuto la possibilità di arrivare, il giorno della strage, fino all’auto e alla ventiquattrore di mio fratello, facendo sparire quel preziosissimo documento». Lo sentivo parlare, alternare racconti privati, aneddoti e momenti della vita professionale del fratello, e pensavo a quanto insignificanti potevano essere i miei sentimenti di rabbia e di dolore rispetto ai suoi.

Eppure — pensavo — nonostante tutto lui è sempre lì. E a 70 anni continua a lottare per la verità e a credere nella verità. Smanetta col suo ipad per tenersi in contatto con i ragazzi che lo sostengono in tutta Italia, lavora per pagarsi le trasferte in ogni angolo del Paese, «perché per parlare di mio fratello non voglio soldi da nessuno», e da qualche anno ha trovato pure la forza (e la casa) per mantenere una promessa fatta a Paolo: quella di tornare a Palermo. Nella Palermo che il giudice Borsellino ha imparato ad amare anche se non gli piaceva.

Già, come si fa ad amare una città che dopo vent’anni e tanto sangue non ti ha ancora restituito uno straccio di verità? Me lo chiedo spesso in questi giorni. E me lo chiedo soprattutto quando mi capita di incrociare qualcuno che ha dovuto sopportare gravi lutti senza sapere ancora perché. Martedì, due giorni prima dell’anniversario, il caso mi ha portato a risentire Manfredi Borsellino, il figlio del giudice oggi dirigente del commissariato di Cefalù. Con i suoi pochi uomini aveva appena portato a termine una brillante operazione sgominando una banda di ladri e rapinatori che, oltre a seminare il panico sulle Madonie, stava cominciando a mettere insieme un piccolo arsenale.

Ecco, ho pensato tra me e me, anche lui è sempre lì e lotta ogni giorno per rendere migliore il mondo che ci circonda. Anche lui aspetta la verità. Come suo zio, come me e come tutti gli italiani onesti. E nonostante tutto si fida di chi la sta cercando. Di quello Stato che, come sembra dagli ultimi processi, è arrivato pure a trattare con chi ha ucciso suo padre (o addirittura a supportarlo).

E alla fine ho capito che in questo messaggio, in questa normalità, c’è forse la lezione più grande: perché se veramente si vuole cambiare il Paese, non è necessario combatterlo, aggredirlo, sparare a zero contro tutto e tutti e riempire i pozzi di veleno. Basterebbe che ognuno di noi, per ciò che gli compete, facesse bene il proprio lavoro. A partire dai politici e da chi ci governa, che dovrebbero imparare a fidarsi di pubblici ministeri e forze dell’ordine anche quando le inchieste arrivano dove non dovrebbero arrivare, e passando per gli stessi magistrati, o per molti di questi, che invece farebbero bene a concentrarsi un po’ di più sulla verità e un po’ meno sulla pubblicità.

 

da “www.dipalermo.it” di venerdì 20 luglio 2012