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Il “papa” che s’accascia sotto il sole. Si piega sulle ginocchia. A Pianosa non c’è un filo d’erba, il caldo è torrido, dagli elicotteri i mafiosi scendono in fila indiana, incatenati gli uni agli altri – a gruppi di otto – e si fermano sul piazzale davanti al carcere: è il 20 luglio 1992.
Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta sono stati ammazzati poche ore prima in via D’Amelio. Gioacchino Genchi ha 31 anni e il capo della Polizia, Vincenzo Parisi, l’ha appena nominato dirigente dell’anticrimine per la Sicilia occidentale.
Vent’anni dopo, negli atti della Procura di Palermo, si scopre che anche Parisi è indicato tra i protagonisti della successiva trattativa tra Stato e mafia.
L’incarico, per Genchi, s’aggiunge alla dirigenza del “settore telecomunicazioni ”: già da tempo s’occupa di contrastare la mafia analizzando tabulati, intercettazioni, materiale informatico.
Dal 14 luglio, però, è anche il dirigente dell’anticrimine e – mentre è in via D’Amelio subito dopo l’attentato – riceve una telefonata dal centralino della questura: Parisi deve parlargli.
Il trasferimento dei mafiosi, dall’Ucciardone a regime duro di Pianosa, entra nella fase operativa.
IL MINISTRO di Giustizia Claudio Martelli, sul cofano di un’auto, firma il decreto personalmente perché – ricorda l’ex ministro socialista – “non c’era nessuno disposto a firmarlo”.
Nella questura di Palermo, Parisi e i suoi uomini, pianificano l’operazione.
“Al trasferimento dall’Ucciardone a Pianosa – racconta Genchi – parteciparono soltanto Polizia e Carabinieri: fu escluso il coinvolgimento della polizia penitenziaria. Il motivo: mantenere assolutamente riservata l’operazione.
C’era il timore di altri attentati. Cosa Nostra – dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio – poteva avere a disposizione altro esplosivo. Era necessario impedire che qualcuno sapesse: stavamo organizzando il trasferimento, in una sola operazione, dei 150 mafiosi più pericolosi. La reazione di Cosa Nostra poteva essere devastante”. Bisogna agire escludendo i “secondini”.
“I vertici del Dap furono coinvolti”, continua Genchi, “ma la polizia penitenziaria dell’Ucciardone non doveva sapere. Tutto si svolgeva nella massima segretezza. Non conoscevo neanche il nome del carabiniere che coordinava l’operazione per conto dell’Arma. Convocai i miei uomini per telefono. Senza anticipare cosa avremmo fatto”.
Genchi non ha l’impressione di trovarsi al centro di un’operazione che, anni dopo, viene inquadrata nella convulsa “trattativa ”.
“Non ne ho avuto alcuna percezione. L’unica tensione che avvertii, in quelle ore, era di tipo burocratico: riguardava il ministero di Giustizia, l’organizzazione materiale dei trasferimenti, ma era una tensione logistica, non politica”.
Lo Stato mette a disposizione aerei, elicotteri, viene allertata la Marina Militare, atterra persino un aereo della presidenza del Consiglio: sarà utilizzato per il viaggio di alcuni detenuti a Pianosa.
ALL’ALBA arriva l’elenco dei mafiosi da trasferire. “Gli elenchi furono due. Nel primo c’erano una decina di nomi in più. Nel secondo, quello definitivo, si contavano circa 150 detenuti. Non ricordo chi fu depennato”.
Elenchi alla mano, sorprendendo persino gli agenti penitenziari, poliziotti e carabinieri avviano l’operazione: “Iniziò alle 4 e mezzo del mattino. Indossavamo la tuta mimetica. E armati con pistola Beretta e mitragliatrici m12”.
Quando gli agenti entrano nel carcere di Palermo, all’interno di alcune celle, trovano bottiglie di champagne stappate: Cosa Nostra aveva festeggiato l’uccisione di Borsellino. L’irruzione della polizia e dei carabinieri, però, li lascia stupiti: “Per la prima volta ho visto lo stupore di Cosa Nostra dinanzi allo Stato: non s’aspettavano quell’operazione. Non l’avevano immaginata”.
Inizia il via vai di aerei Hercules ed elicotteri che volano in stormo verso Pisa e poi Pianosa. I mafiosi salgono a bordo in manette e catene. “Ricordo che sugli Hercules, le cinture di sicurezza, erano incrociate: i detenuti, incatenati com’erano, non riuscivano ad allacciarle da soli. Furono gli agenti a chiuderne le fibbie. Durante il viaggio erano sconcertati. Disorientati.
Sguardi bassi per tutto il tempo. In pochi – soltanto i più giovani – provarono a domandare: ‘Dove ci portate?’. Ai capi bastava uno sguardo per ammutolirli: nessuno doveva domandare nulla”.
ARRIVATI a Pianosa, i mafiosi, incatenati, scendono da aerei ed elicotteri e si fermano sul piazzale. Il carcere non è ancora ultimato.
“Vedo un uomo dai capelli bianchi che s’accascia sotto il sole e intralcia il cammino degli altri detenuti”, ricorda Genchi. “Un agente me lo indica: ‘È Michele Greco, il papa. M’avvicino. Ordino a un agente di togliergli le manette. Lo trascino sulla spalla fino a un muretto, dove c’è un po’ d’ombra, gli offro un bicchiere d’acqua”.
Il “papa” è il vecchio capo della Cupola di Cosa Nostra.
“Greco mi tende la mano, in segno di riconoscenza, ma rifiuto di stringerla. ‘Mi dica almeno come si chiama’, risponde, ma l’unica frase che riesco a pronunciare è ‘non abbiamo un nome, siamo lo Stato’”.
La scena può apparire retorica. Ma non lo è: racconta lo stato d’animo dei tanti “piccoli ingranaggi” che, come Gioacchino Genchi, il 20 luglio 1992, organizzano con orgoglio la risposta alla Mafia. Fu un’operazione di guerra: ci vollero 200 persone, soltanto per presidiare l’Ucciardone, eppure pochi mesi dopo, un’altra parte dello Stato, decide di trattare con Cosa Nostra. Per alleggerire il carcere duro.
da “Il Fatto Quotidiano”, pagg. 4 e 5 di mercoledì 11 luglio 2012
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