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La riforma della giustizia «va fatta entro il 2023», dice al Tempo il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, anche a costo di qualche stop and go. Se il decreto di ieri prevede l’estensione delle intercettazioni per evitare effetti dirompenti su processi in corso dopo la sentenza 34895/2022 della Cassazione sul concetto di «criminalità organizzata», resta il tema della loro utilizzabilità, alla ricerca dell’equilibrio giusto tra le esigenze investigative e il diritto costituzionale alla riservatezza.
Arriva l’archivio centralizzato per conservarle in modo sicuro, e questo è un primo passo necessario, visto che gli archivi delle società sono già stati oggetto di hackeraggio. Per il Garante della Privacy «la delocalizzazione dei server in territori a volte non soggetti alla giurisdizione nazionale» (come in Delaware, Usa) costituisce «un vulnus». Ci solo le prove che in passato alcune aziende private che hanno accesso ai server sono intervenuti per modificare il «tracciamento» delle loro attività.
Il problema non è dunque limitato alla scelta politica di privilegiare alcuni reati, quanto allo strumento in sé, come è emerso nelle commissioni Giustizia dopo l’audizione di numerosi esperti. Non si può intercettare a intermittenza, a volte i brogliacci vengono «manipolati», con un taglia e cuci che lascia molti dubbi. «Come si garantisce la genuinità di un’intercettazione quando una voce può essere clonata, riprodotta, rielaborata, manipolata dall’intelligenza artificiale?», si chiede su Twitter il deputato di Azione Enrico Costa, che annuncia un’interrogazione. Per non parlare di quelle fatte all’estero grazie alla decriptazione di software teoricamente blindati come Encrochat e Sky-ECC, sdoganate pur essendo non sempre affidabili e rispettose della privacy, sacrificando così la difesa e «subordinando l’ordinamento processuale alla ragion di Stato», scrive l’avvocato Roberto De Vita.
In Italia chi conserva oggi questi dati, che uso fa delle informazioni sensibili? Chi ascolta ha la necessaria professionalità? Se è vero che col decreto di ieri prevale la linea pro intercettazioni del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, condivisa anche dal capo dell’Antimafia Giovanni Melillo, la lotta contro le troppe storture dei trojan possono infiammare un dibattito già avvelenato dallo scontro sul concorso esterno. Nessuno sa quanti trojan siano attivi (sotto ascolto ci sarebbero circa 180mila soggetti) né quanto costano alle Procure, in sfregio a una inapplicata legge del 2017. Le potenzialità di questi software sono sconfinate: scrivere una mail o un messaggio senza che l’intercettato si accorga di nulla, persino fabbricare un’eventuale prova attivando il browser o scaricando immagini, senza lasciare traccia delle prove tarocche «a tavolino», come denuncia da tempo Gioacchino Genchi. Questi software quasi tutti stranieri trasformano il telefono in un microfono ambientale, hanno accesso a mail, foto, video, messaggi, rubrica, cronologia, possono perquisire l’hard disk e farne copia, totale o parziale, decifrare ciò che viene digitato sulla tastiera e visualizzare ciò che appare sullo schermo del dispositivo bersaglio, persino sfuggire agli antivirus in commercio.
Le imprese del settore sono circa 150 (le sei più grandi controllano il 75% del mercato), molte sono a sostanziale conduzione familiare, fatturano centinaia di migliaia di euro senza alcuna specializzazione, né certificazione, né selezione né controllo del ministero della Giustizia. Sono già spuntate registrazioni «orfane», senza documenti né programmi. La scelta delle società a cui rivolgersi è rimessa ad una libera valutazione (i distretti più attivi sono Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Milano e Roma) e può anche succedere, nel 2006, che la Waylog, cui si è rivolta la Procura di Como nelle indagini sulla strage di Erba (vicenda tornata alla ribalta), sia controllata al 40% da soggetti anonimi «scudati» in Svizzera. In violazione di legge e nel silenzio assoluto di Via Arenula.
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