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“La legge per La Barbera era un accessorio che si utilizzava per gli altri. Non per sé stesso. Lui era al di sopra della legge. Io questo concetto non l’ho mai accettato. Ma non era un disonesto, che io sappia non è riuscito a comprarsi una casa nella sua carriera finché c’ho lavorato io, forse gliel’ha fatta avere poi De Gennaro, per dire che non era una persona che sicuramente era portato dal denaro a fare certe cose”. E’ questa la considerazione che l’ex funzionario di Polizia, Gioacchino Genchi, sentito venerdì a Caltanissetta nell’ambito del processo contro i funzionari di polizia Mario Bo e i due sottufficiali Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra, ha fatto nei confronti dell’ex Questore di Palermo (oggi deceduto) rispondendo alle domande dei pm. Quella di venerdì è stata la seconda udienza dedicata alla sua audizione. Genchi, oggi avvocato, ha dunque parlato del rapporto stretto avuto con La Barbera, continuato fino allo scontro avuto nel 1993. “Finché sono stato con lui, non è mai venuto meno alle leggi di polizia – ha dichiarato il teste – Razionalizzando col tempo il comportamento di La Barbera, non è stata la pista di Scotto e poi la pista Candura e Scarantino un errore in sé, gli investigatori sono uomini e possono sbagliare. Non c’è neppure un’incapacità tecnica perché lui era un investigatore bravissimo. La scelta di chiudere frettolosamente le indagini su via d’Amelio non dipendeva dalla voglia di accelerare una sua ascesa, una qualche promozione, non ha fatto questo per fare carriera, è stato indirizzato a fare questo dalle istituzioni in cui lui credeva, principalmente per evitare che si potessero emergere i veri responsabili della strage, questo è l’aspetto più grave, e che ha connotato poi tutta la mia disistima nei suoi confronti fino alla sua morte e per la quale non sono neppure andato al funerale. Un uomo che ha rubato cinque anni della mia carriera e ha distrutto le mie aspirazioni e ideali legati a una carriera in polizia, tutte cose che io non posso perdonargli”.
Il litigio con La Barbera
Il motivo dello scontro tra Genchi e La Barbera è dato dalla decisione di arrestare Pietro Scotto, fratello di Gaetano Scotto e uomo d’onore dell’Arenella, su cui si stavano sviluppando delle indagini. “Quando mi fu palesata l’idea del fermo mi sembrò un’autentica follia. L’arresto di Scotto significava l’aborto delle indagine, la fine – ha ricordato in aula – noi avevamo messo una microspia. C’era anche l’analisi del traffico telefonico che era abbastanza preoccupante con contatti che portavano al Castello Utvggio, uno dei luoghi in cui si ipotizzava potesse essere stato premito il telecomando per la strage. E in quel momento non c’erano segnali che Scotto stesse paventando una fuga. Quella notte io e La Barbera parlammo fino alle cinque. Ricordo anche che lui pianse. Avemmo uno scontro anche sul personale. Il giorno dopo abbandonai il gruppo e tornai al Reparto Mobile”.
L’agenda rossa
Durante la sua deposizione Genchi ha anche raccontato un episodio avvenuto in una pizzeria a Palermo: “Ho un ricordo lucidissimo di una serata in pizzeria a piazza Castelnuovo, ero con La Barbera, Fausto Cardella e Ilde Boccassini, entrò la signora Agnese Borsellino coi familiari, lei era indignata e si rifiutò di dare la mano a La Barbera. Una dimostrazione ostentata di carenza di fiducia. Boccassini poi disse al tavolo che la signora era convinta che l’agenda rossa fosse stata fatta sparire da La Barbera. Lui era innervosito e infastidito da questa cosa”. Eppure Genchi ha ricordato che con l’ex Questore quell’agenda si stava cercando: “Lui era convinto che fosse stata sottratta”. Una “convinzione” che non sarebbe emersa, secondo quanto riferito da Lucia Borsellino, il giorno della riconsegna alla famiglia della borsa dl giudice quando vi fu uno scontro verbale con la Barbera proprio sull’esistenza dell’agenda rossa. Durante il controesame l’avvocato Di Gregorio ha contestato che vi è una dichiarazione all’Ansa di La Barbera in cui lo stesso si dice sicuro che è stata bruciata. Tuttavia riguardando l’agenzia stampa del 25 luglio 1992 rispetto a l’agenda rossa (che al tempo veniva identificata solo come agenda telefonica) si legge: “Il capo della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera, ha confermato che l’agenda non è stata trovata né a casa di Borsellino e neppure nella sua automobile blindata. Non era neanche tra i documenti prelevati dal suo ufficio, nel palazzo di giustizia, ora sigillato per ordine della Procura di Caltanissetta. La Barbera ha aggiunto: ‘Non si può tuttavia escludere che l’agenda sia stata distrutta nell’attentato di domenica scorsa. Il fuoco devastante, sviluppato dall’esplosione, ha cancellato infatti molto tracce. Le fiamme hanno tra l’altro liquefatto le targhe delle automobili investite dalla deflagrazione in via D’Amelio’. Gli investigatori escludono comunque che il contenuto della rubrica telefonica del magistrato possa risultare in qualche modo utile per le indagini sulla strage”.
“Noi – ha detto oggi Genchi – ci chiedevamo quale potesse essere il motivo per cui Borsellino doveva portare l’agenda con sé dalla madre. Lui in mano teneva sempre la sigaretta, non l’agenda. L’unica ipotesi era che fosse in macchina all’interno della borsa che tra l’altro era rimasta indenne così come praticamente indenne era una batteria Motorola”. Genchi ha anche riferito di aver appreso che la copia dell’agenda grigia di Paolo Borsellino fu fatta su ordine del Presidente Di Natale, nel processo Borsellino uno.
Ma non è solo l’agenda rossa ad essere sparita nell’elenco delle prove. Infatti Genchi ha detto di aver svolto accertamenti in merito al traffico in uscita di Paolo Borsellino ma di non aver potuto analizzare il traffico telefonico in entrata. “Non lo abbiamo mai avuto a disposizione. Fu detto che quei file erano corrosi dall’umidità ma è una cosa che non esiste. Quel traffico in entrata era un dato obiettivo, non si è mai avuto, ritengo che probabilmente fosse quello più importante, perché se c’erano state chiamate a Borsellino da persone che non dovevano mai emergere era importante fallo scomparire e infatti non è mai stato acquisito”.
Le indagini su Contrada
Genchi ha anche raccontato delle indagini svolte su Bruno Contrada. “Ho iniziato gli accertamenti per la procura di Caltanissetta prima del suo arresto. Non lo conoscevo, mai avuti rapporti e nemmeno incontri fisici con lui, tutti quelli che lo avevano conosciuto me ne avevano parlato male. Io ero rimasto sulle mie – ha dichiarato il teste rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Gabriele Paci –Quando l’allora fidanzato di Lucia Borsellino, un ragazzo della scuola di agenti allievi ausiliari, aveva raccontato che tra i compagni c’era il figlio di Contrada, Borsellino aveva avuto delle esclamazioni molto negative dicendo che questi era un ‘personaggio terribile, pericoloso, fai attenzione’. Anche La Barbera mi aveva parlato malissimo di Contrda”. Sul punto il teste, rispondendo alle domande dell’avvocato Repici ha anche approfondito: “Riscontrammo che Contrada nel periodo dell’interrogatorio con Mutolo si trovasse a Roma e non in Sicilia. Con questo non possiamo sapere se fosse stato al Viminale nel giorno dell’incontro tra Borsellino e Mancino ma posso dire che emergeva l’interesse di Contrada per le attività di Borsellino”.
Genchi ha anche parlato degli appartenenti al Gruppo Falcone-Borsellino che verrà istituito ufficialmente nel 1993: “La parola gruppo e gruppi ce la siamo inventata noi quando avevamo la necessità di scrivere in carta intestata durante le indagini – ha dichiarato il teste – Nel settembre 1992 non esiste un ufficio specifico dove si sviluppano indagini”. Alla domande sulla sua conoscenza degli imputati Mattei e Ribaduo ha aggiunto: “Mattei quando c’ero io non era appartenente al Gruppo. Posso dire che all’interno della Mobile era tenuto in conto da La Barbera in quanto era una persona scrupolosa e di cultura. Lui sapeva scrivere bene i verbali. La Barbera lo considerava come uno affidabile. Chi io ricordo come interfaccia però era Guttadauro che svolgeva le funzioni più disparate. Ribaudo? Lui lavorava ad un terminale in cui si inserivano tutti i nomi delle persone che venivano fermate. Ma l’ingresso del Gruppo credo sia successivo. Ricciardi? Su di lui ho saputo cose poco belle. Bo? Quando c’ero io non faceva parte del gruppo e anzi so che era andato via da Palermo prima. C’erano questioni personali ma mi venne accennata una questione della sparizione di denaro da un portafoglio che era sul tavolo di una squadra mobile. Poi non conosco i reali motivi per cui se ne andò. Successivamente tornò a Palermo”. L’udienza è stata rinviata al 14 gennaio.
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