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Sei ore e cinquantatré minuti. Tanto è durata l’udienza di venerdì a Caltanissetta, nel processo contro i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra, che ha visto le deposizioni dei magistrati Fausto Cardella e Francesco Paolo Giordano, che furono investiti nelle indagini sulle stragi del 1992. Entrambi erano già stati ascoltati su queste vicende nel processo Borsellino quater e sostanzialmente hanno ribadito quanto già avevano riferito al tempo ma, grazie alle domande dei pm Gabriele Paci e Stefano Luciani, delle parti civili e delle difese, è anche stato possibile approfondire alcune vicende anche alla luce degli ulteriori elementi acquisiti nel corso del dibattimento.
Il primo a salire sul pretorio è stato Cardella, oggi procuratore generale a Perugia, chiamato all’epoca dal procuratore Tinebra a Caltanissetta per unirsi alle indagini sulla strage di via D’Amelio: “In occasione di un convegno a Firenze nell’ottobre 1992 Tinebra mi chiese se fossi disponibile a lavorare sulle stragi. Accettai e, giusto il tempo di sbrigare le pratiche, andai a Caltanissetta. Ricordo che al mio arrivo trovai una situazione di stasi investigativa, questa era la situazione sulla base delle informazioni e dei discorsi coi colleghi. Vincenzo Scarantino era già stato arrestato sulla base di intercettazioni ambientali fatte nel carcere in cui erano Candura e un altro detenuto“.
La borsa di Borsellino
Tra i primi problemi che si trovò ad affrontare al suo arrivo vi fu anche quello della borsa di Borsellino. Infatti, incredibilmente, nonostante fossero passati diversi mesi dall’attentato ancora non era stato fatto un verbale di sequestro della borsa. “Fu la Boccassini che si rese subito conto, già nelle prime ore, che c’era questa situazione da regolare, da sanare, perché non c’era un verbale di sequestro della borsa – ha raccontato Cardella – Ricordo che c’erano già anche le prime polemiche sull’agenda. La Barbera disse; ‘io me la sono ritrovata in questura, non so come c’è arrivata’, non fu fatto nessun verbale, forse una distrazione. A quel punto la Boccassini disse ‘Dobbiamo vedere subito’. Io fui incaricato di andare a Palermo il giorno dopo, questo fu uno dei primi problemi da risolvere. Andai alla mobile, c’erano altre persone, abbiamo aperto questa borsa, non ricordo cosa ci fosse, ma ricordo cosa non c’era“.
L’agenda rossa
Il flusso di ricordi lo porta anche a parlare dell’agenda rossa di Borsellino. Anche quello fu uno degli argomenti che furono trattati sin dai primi momenti: “Il dottore La Barbera aveva l’abitudine di venire a Caltanissetta per portare carte, normalmente verso le 21 di sera. Andava dalla dottoressa Boccassini, depositava le carte e allora mi chiamavano. Sull’agenda rossa non ricordo che vi fossero posizioni precise. Durante una delle chiacchierate informali parlammo anche di questo. L’ipotesi che fosse distrutta era la meno plausibile perché la borsa era danneggiata ma integra, quindi quell’ipotesi fu ragionevolmente scartata, sempre che fosse nella borsa come si diceva“. “Io ricordo che dell’agenda parlò anche il maresciallo Canale ma tempo dopo – ha aggiunto – allora l’argomento era già emerso e si parlava anche di presenze inquietanti sul luogo del delitto e da lì finimmo alla borsa, si parlò di chi fosse andato sul luogo del delitto, ricordo che facemmo accertamenti su Contrada e sulla sua presenza in via D’Amelio. Certamente non arrivò niente né del capitano Arcangioli né di quella famosa fotografia. Sull’agenda nei primi tempi ci fu un’indagine serrata: interrogammo il capo della polizia, i collaboratori di giustizia a cominciare da Mutolo, cercammo di ricostruire cosa avesse fatto Paolo negli ultimi giorni“.
Le indagini su Contrada e il Sisde
Proprio Mutolo fu il collaboratore di giustizia che il 1 luglio 1992 parlò a Borsellino di Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde, e del giudice Signorino. “Io mi occupai soprattutto delle indagini su Signorino ma ricordo che furono fatti approfondimenti anche su Contrada e la sua eventuale presenza in via d’Amelio il giorno della strage. Sempre in quei mesi La Barbera mi propose di avviare un’investigazione con il Sisde – ha aggiunto il teste –, gli disse che ne avrei dovuto parlare con la dottoressa Boccassini. Venne proposto il centro Sisde che si trovava a Castello Utveggio, sulla base che da là sopra si vedesse bene, era un’ipotesi, e per alcune telefonate meritevoli di interesse, non ricordo se fossero sospette perché avvenute a ridosso della strage o per altri motivi. All’epoca non sapevo neppure che La Barbera avesse fatto parte dei servizi di sicurezza. Il Sisde e il Cerisdi diventano tema di indagine tra novembre e dicembre, erano i primi tempi ancora, non c’era ancora un rapporto sviluppato con La Barbera, avvenne nel tempo, in seguito. Ci fu un buon rapporto di collaborazione tra noi e devo dire anche di stima“. Accantonato Contrada, le domande del pm Paci si spostano sull’interrogatorio del giudice Domenico Signorino, a cui vengono contestate le dichiarazioni riferite da Mutolo e da Marchese. “Ricordo che commentò ‘sono perduto’ – ha ricordato Cardella -. Il giorno dopo abbiamo saputo che si era suicidato“.
Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Paci Cardella ha escluso di aver mai saputo del coinvolgimento del Sisde nelle indagini sulla strage di via d’Amelio (“Il discorso di indagare su Contrada lo apprendemmo i primi giorni“).
Il procuratore generale di Perugia Fausto Cardella © Imagoeconomica
Altre piste investigative
Nel corso della deposizione Cardella ha anche ricordato che al tempo le indagini non si sarebbero concentrate subito sul picciotto della Guadagna. Il magistrato ha riferito di altre due possibilità investigative: “La prima che trovammo era quella relativa a un misterioso incontro avvenuto nell’autostrada di cui in qualche modo c’era stata una traccia nelle informative della mobile e una sorta di identikit, un fotofit, una traccia che in qualche modo si pensava potesse portare ai Santapaola. Un collegamento che forse si fondava su una somiglianza dell’identikit, non ricordo se ci fossero altri elementi. La seconda – ha proseguito – riguardava le dichiarazioni di un certo Ubaldo Lauro, che dopo divenne un collaboratore della ‘Ndrangheta. Era detenuto in Germania e da lì aveva fatto pervenire la sua volontà di collaborare, perché diceva che era in grado di dare un contributo notevole alle indagini sulle stragi“. Anche quella pista però si rivelò priva di frutti nel momento in cui, al momento della verbalizzazione, sulle domande insistenti e decise della Boccassini, Lauro cedette: “La Barbera stava dietro Lauro, seduto, era molto attento, lui aveva molto spinto su queste indagini, ci credeva. Ilda Boccassini non sembrava convinta, prese lei a condurre l’interrogatorio e nel giro di pochissimo tempo una serie di domande incalzanti portarono Lauro a piangere e ad ammettere che si era inventato tutto perché aveva ritenuto che fosse l’unico sistema migliore per rientrare in Italia a scontare la sua pena anziché in Germania. Ricordo il forte disappunto di La Barbera quando si rese conto che in fondo Lauro aveva preso in giro tutti quanti facendoci credere che sapesse delle cose“.
Le indagini sulle stragi furono comunque sviluppate in più direzioni partendo da episodi come l’omicidio Lima o quello del maresciallo Guazzelli: “Collegavamo una serie di fatti, dall’omicidio di Lima alla situazione italiana internazionale, all’impasse per l’elezione del presidente della Repubblica, eletto subito dopo la strage. Parlavamo del nulla che avviene tra Capaci e via D’Amelio, cioè che ci sono le solite reazioni e commenti sul non abbassare la guardia ma intanto il 41bis non viene approvato, verrà approvato solo dopo la strage di via D’Amelio – ha ricordato -. Quindi una serie di fatti politicamente e socialmente importanti e coevi all’epoca delle due stragi. Sembrava, anzi era una dichiarazione di guerra“.
Tra le piste che non furono perseguite nelle indagini sulle stragi vi era quella sul viaggio di Falcone negli Stati Uniti d’America, che fu proposta in particolare da Gioacchino Genchi ma che trovò il fermo diniego da parte della Boccassini. “Si proponeva l’opportunità investigativa di fare verifiche su tabulati e la carta di credito di Falcone ma con la collega non ne vedevamo la necessità. Sembrava come un’indagine per altro“. Eppure, come sottolineato dall’avvocato di Salvatore Borsellino Fabio Repici, poteva essere un modo per accertare se effettivamente Falcone fosse stato o meno negli Stati Uniti prima del 23 maggio. Ma il ricordo di Cardella sul punto non è stato particolarmente preciso (“Non ricordo. Se risulta che il viaggio c’è stato per noi c’era stato. Se risultava che non c’era stato, non c’era stato“). Fatto sta che l’accertamento non fu compiuto. Cardella non ha neanche ricordato gli accertamenti compiuti da Genchi sulla manomissione dei computer di Falcone all’ufficio affari penali. Quindi ha riferito di non “avere memoria” sui colloqui investigativi che furono autorizzati con Scarantino ed Andriotta nel 1993. Quest’ultimo, in particolare, piuttosto anomalo se si considera che già era collaboratore di giustizia e per bypassare l’autorità giudiziaria fu richiesto al Ministero.
L’atteggiamento laico su Scarantino
Parlando del percorso che portò alla collaborazione di Vincenzo Scarantino il teste ha ricordato come l’approccio da parte sua e della dottoressa Boccassini fu “laico”. “Scarantino era presentato come uno scassapagliaro, una persona di poco conto, uno di quelli da cui non ti puoi immaginare un omicidio di questo tenore. D’altra parte però era imparentato, era cognato di un certo nome, Profeta – ha riferito rivolgendosi alla Corte – E poi c’erano queste intercettazione Candura-Valenti che poi erano state determinanti – spiega -. C’era un atteggiamento laico, apprendista, si vedeva come si sviluppava la situazione, gli indizi c’erano ma non si diceva ‘abbiamo risolto il caso’. Con la storia poi di Orofino e Andriotta (collaboratore più neutro, non veniva né dalla mafia né dalla Sicilia), la posizione di Scarantino venne un po’ rinforzata“.
La lettera di elogio ai poliziotti
Un momento di acceso nervosismo durante il processo si è verificato quando, a sorpresa, l’avvocato di Mario Bo, Giuseppe Panepinto, ha prodotto una lettera di elogio del pm Fausto Cardella all’ex capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, che viene descritto come “sagace, paziente, incisivo, acuto, ricco di fiuto nel proporre nuovi temi investigativi“, e a tutto il gruppo investigativo ‘Falcone e Borsellino’, che indagava sulla strage. Il documento non era agli atti del processo e per quel motivo il pm Luciani si è opposto con fermezza alla possibilità di porre domande sullo stesso e di mostrarla al teste. Tuttavia il Presidente del Tribunale ha ritenuto di ammettere la domanda permettendo comunque alle parti di visionare il documento. In quella missiva, inviata il 20 dicembre 1993 al Procuratore capo di Caltanissetta si faceva una sorta di “punto della situazione” dopo il periodo trascorso con l’applicazione. “A conclusione del mio periodo di applicazione a questa Dda sento di evidenziare gli eccezionali meriti del dottor Arnaldo La Barbera nelle indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio“, è scritto nella lettera. E poi ancora: il “dottor La Barbera ha seguito costantemente tali indagini, prima come dirigente della Mobile di Palermo, poi come responsabile dello speciale gruppo investigativo, costituito ad hoc. L’impulso positivo alle indagini dal dottor La Barbera inizia fin dai primissimi atti“, scrive ancora Cardella.
Di La Barbera si parla ancora come di una persona “tenace nel seguire le piste che ritiene interessanti, onesto e pronto nel riconoscere quelle rivelatesi infondate“.
Nella lettera il magistrato cita anche tutti i componenti del gruppo tra cui l’imputato Mario Bo, presente all’udienza di oggi. “Ha saputo scegliere e circondarsi di persone di valore tra le quali devo menzionare specialmente Claudio Sanfilippo, Salvo La Barbera, Mario Bo, e più di recente Lilia Fredella. I suoi uomini lo amano anche se impone ritmi di lavoro massacranti perché per primo li impone a sé stesso“. In un altro passaggio Cardella ricorda anche che “i mafiosi lo temono e lo rispettano. Io stesso ho potuto cogliere questi atteggiamenti degli uomini d’onore di Cosa nostra in diverse occasioni. Essi si alzano in piedi quando entra il dottor La Barbera e tengono verso di lui un atteggiamento rispettoso, quale si riserva all’avversario temuto ma leale. Considero un privilegio avere lavorato con il dottor La Barbera“. Parlando di Bo il teste ha ricordato che “La figura di apice era La Barbera. Bo arrivò in un momento successivo, non so quanto tempo dopo il mio arrivo perché la figura dominante era Arnaldo La Barbera. Credo che il dottor Bo, e spero che non me ne voglia, avesse un ruolo minore, non era il nostro riferimento diretto. Sapevamo che c’era, si era instaurato un rapporto di cordialità e stima, però non era un nostro punto di riferimento. Non so neanche se rimase tutto il tempo, lo stimo“.
La lettera della Boccassini
Sulla lettera scritta dalla dottoressa Boccassini Cardella ha detto di aver appreso in diretta di quelle note (“Ci sentimmo per telefono e lei disse che aveva grossi dubbi su Scarantino“). Il tema delle note è stato ripreso successivamente durante l’esame di Franco Paolo Giordano, prima sostituto procuratore e poi aggiunto a partire dall’aprile 1993.
Il teste, rispondendo alle domande del pm Luciani, ha ricordato le due note che le furono anche preannunciate dalla Boccassini: “Lei disse che avrebbe fatto questa lettera e fece anche considerazioni sul fatto che i processi sulle stragi non si dovevano tenere a Caltanissetta. Non lo riteneva possibile. E parlava degli appunti per una riunione futura“. In quelle lettere la magistrato indicava le sue perplessità su Scarantino e rappresentava una diversità di vedute anche con gli altri colleghi che al tempo si occupavano dell’indagine. “Se ne parlò ma devo dire che era Petralia ad essere delegato a svolgere le attività e l’accusa al processo, assieme alla dottoressa Palma. Al tempo il processo era già di fronte alla Corte d’Assise. Ricordo i dubbi e la necessità dei confronti con i collaboratori che poi furono fatti. Ma quelle diversità sulle dichiarazioni furono superate con la frazionabilità, tesi che fu legittimata anche dalla sentenza di Cassazione del Borsellino uno del giudice Canzio, prendendo in esame solo le cose che effettivamente erano riscontrate. Anche perché c’era la questione che Cancemi, Di Matteo e La Barbera non erano all’epoca ancora ritenuti pienamente attendibili. La riunione sulla lettera di Saieva e Boccassini alla fine mi pare che non si tenne“.
Giordano, che nel ’92 era procuratore aggiunto a Caltanissetta, ha anche riferito che “quando Vincenzo Scarantino fece le prime accuse sul fatto che era La Barbera ad imbeccarlo non vi furono indagini fatte dall’ufficio. A quell’epoca La Barbera aveva la nostra fiducia e la stima di tutti. Scarantino – ha detto il magistrato – era un soggetto fragile psicologicamente e aveva bisogno di un sostegno psicologico. Aveva bisogno durante gli interrogatori della presenza di magistrati che lo rassicuravano“.
Alle domande sulle ritrattazioni svolte da Scarantino il magistrato ha anche ricordato che il picciotto della Guadagna, “dopo aver iniziato a collaborare, subì pressioni dai familiari affinché ritrattasse“. Alla domanda del Pm Stefano Luciani sul perché Scarantino fosse stato sottoposto tra la fine del 94 e il 95 ad intercettazioni telefoniche mentre era in Liguria, Giordano non ha escluso che l’attività di intercettazione fosse stata mirata proprio a verificare queste pressioni che Scarantino avrebbe ricevuto.
Il magistrato Francesco Paolo Giordano © Imagoeconomica
L’interrogatorio fissato dopo il 20 luglio 1992
Il magistrato ha poi ricordato anche le prime fasi di indagine sulla strage del 1992. A suo dire la Procura nissena aveva in programma di sentire Borsellino dopo il 20 luglio 1992. Una vera e propria beffa, se si considera che già il 25 giugno, nell’ultimo discorso pubblico che tenne a Casa professa, il giudice palermitano aveva di fatto chiesto di essere sentito come testimone dall’autorità giudiziaria. Eppure quell’urgenza non venne avvertita. “Era in programma di sentire Borsellino dal 20 luglio in poi – ha ricordato il sostituto procuratore generale di Catania – Dal traffico del cellulare di Borsellino, venne riscontrato un contatto con Giovanni Tinebra, quindi evidentemente c’era questa idea di sentirlo perché Paolo Borsellino parlava con Tinebra tra giugno e i primi di luglio“.
Il coinvolgimento di Contrada nelle indagini su via d’Amelio
Rispetto al coinvolgimento di Contrada e del Sisde nelle indagini sulle stragi il teste ha detto di “non essere stato a conoscenza della richiesta di collaborazione formale che fu portata avanti da Tinebra“.
“Io ricordo una riunione, a mia memoria già prima della strage di via d’Amelio, dove fu lo stesso Contrada a rendersi disponibile a collaborare. Il perché di quel coinvolgimento? Presumo una forma di collaborazione per riversare, da parte dei servizi, le informazioni di loro conoscenza attraverso gli organi di polizia giudiziaria“.
Eppure, guardando anche le agende dell’ex numero tre del Sisde emerge chiaramente che il contatto con Tinebra è a partire dal 20 luglio 1992 e non mancano i riferimenti proprio a temi di indagine. E’ lo stesso pm Luciani ad aver messo in fila i passaggi portandoli all’attenzione del teste a cominciare dalle note del Sisde in cui si riferiva delle parentele mafiose di Scarantino. “Io l’informativa non la ricordo – ha detto Giordano – Ma ho in mente il collegamento che fece La Barbera tra Scarantino-Profeta ed Aglieri“. Il magistrato ha anche escluso che l’incontro da lui riferito in cui Contrada parlò delle stragi possa essere quello del 24 luglio. In quel giorno, nell’agenda, si fa riferimento ad un pranzo all’Hotel San Michele a Caltanissetta, il 24 luglio, alla presenza di Tinebra, Contrada, e gli altri funzionari De Luca, Ruggeri e Narracci, e di quell’occasione ha riferito anche Carmelo Petralia quando fu sentito davanti la Commissione regionale antimafia. “Ho già chiarito che io non c’ero in quel giorno – ha detto Giordano – Petralia si sbaglia. Io non ricordo nulla e non so nulla di quel pranzo né ho partecipato a quella riunione con quelle persone. Comunque posso dire che Tinebra era in buoni rapporti con i servizi. Su che basi? Periodicamente veniva da Tinebra il funzionario Piraino per uno scambio di informazioni credo. Parliamo negli anni successivi alle stragi. Comunque io ricordo che quando ci fu l’arresto di Bruno Contrada fu un fulmine a ciel sereno, non sapevo che fosse sottoposto a indagini“.
Ugualmente Giordano ha detto di non ricordar nulla di particolare rispetto ai colloqui investigativi che anticiparono la collaborazione di Scarantino, neanche quelli da lui stesso autorizzati (“Tinebra era un accentratore, avocava tutto e voleva che gli fossero mandati tutti i verbali“). Inoltre non ha saputo fornire ulteriori elementi rispetto al sequestro dei materiali di studio aperto con l’intervista e la ritrattazione di Scarantino nel luglio 1995, né del provvedimento con l’ordine di oscuramento del server di Mediaset.
Il dvd con le intercettazioni Scarantino
Durante l’udienza il procuratore aggiunto Paci ha anche confermato che presso la segreteria sono state depositate le trascrizioni delle intercettazioni dell’ex pentito Vincenzo Scarantino nel periodo in cui l’ex ‘picciotto’ della Guadagna aveva iniziato a collaborare con la giustizia, nel 1995. Si tratta di dvd contenenti le intercettazioni del falso pentito. La documentazione è quella pervenuta dalla Dda di Messina che indaga su due magistrati, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata. “La documentazione – ha detto Paci – riguarda i nastri delle trascrizioni e intercettazioni a Vincenzo Scarantino a San Bartolomeo a mare (Imperia)”.
Il processo è stato rinviato al prossimo 9 dicembre quando proseguirà il controesame di Giordano e verrà sentito anche il magistrato Roberto Saieva.
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