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REGGIO CALABRIA – Ne aveva 48 di cellulari a disposizione e di schede telefoniche almeno 300. Tutte intestate a prestanome, tutte fantasma. Una ufficialmente era in uso a una vecchietta, una zia della famiglia Morabito che in pochi mesi aveva fatto tre volte il giro dell’Italia. Prima da sud verso nord e poi al contrario da nord verso sud.
Quando si è accorto che i poliziotti gli stavano addosso, quando ha capito che l’ indagine lo stringeva in un cerchio, Giuseppe Pansera è entrato in un negozio di telefonia a Siderno e ha acquistato tre apparecchi mobili e tre schede intestate a lui e a sua moglie Giuseppina. «Così si è fatto la plastica facciale», ha testimoniato davanti ai giudici di Milano il consulente che ha elaborato più un milione e mezzo di tracce telefoniche nell’ indagine su un colossale traffico di droga gestito dalla ‘ndrangheta.
È nella primavera del 1997 (il 17 aprile, per la precisione) che per la prima volta il medico genero del capo dei capi Giuseppe Morabito detto “Tiradritto”, risulta intestatario di un cellulare. «Prima né io e né mio suocero ce lo potevamo permettere», ha gridato un giorno dalla gabbia dell’aula giudiziaria dove era rinchiuso e dove si stava celebrando il processo a suo carico. Con quei tre telefonini Giuseppe Pansera ha parlato liberamente per 3 anni, fino al 2000. Con amici, familiari, colleghi. E anche con Fortugno. Mentre con i compari mandava e riceveva messaggi da quegli altri 48 cellulari e da quelle altre 300 schede, che cambiavano di mano in mano ora dopo ora.
Siamo andati a recuperare la consulenza tecnica che Gioacchino Genchi ha presentato nel giugno scorso al pubblico ministero Laura Barbaini della Procura di Milano, la parte che riguarda nel dettaglio le utenze del boss Pansera e di sua moglie Giuseppina, un’elaborazione dei dati di traffico telefonico che una volta per tutte dovrebbero chiarire quali sono stati i suoi contatti. E in particolare quelli – le 12 conversazioni – con Francesco Fortugno, il vicepresidente del parlamento della Calabria ucciso dieci giorni fa a Locri mentre si stava votando per le primarie dell’Unione. Il consulente tecnico è un siciliano, abita a Palermo, è un funzionario di polizia in aspettativa. Per testimoniare è volato a Milano nel 2005 sei volte, l’hanno sentito in aula il 7 e il 22 e il 23 febbraio, il 9 e il 14 marzo, l’8 giugno. Ecco cosa ha raccontato innanzitutto: «In concomitanza con il ciclone delle indagini milanesi e quando già da più parti se ne erano avuti i prodromi – subito dopo la primavera del 1997 – tanto il Pansera Giuseppe quanto il Morabito Giovanni hanno ritenuto di doversi munire di utenze ufficiali a loro regolarmente intestate, onde dissimulare e cancellare definitivamente ogni pregresso rapporto con il passato riguardante l’utilizzo di utenze intestate a terzi». E aggiunge ironicamente Gioacchino Genchi nella sua relazione: «Tutti e due si erano convertiti all’hi-tech». Per dimostrare la sua tesi il consulente ha presentato al pubblico ministero l’elenco dei familiari del clan di “Tiradritto” e tutte le utenze a loro intestate, ha elaborato i dati telefonici di uno sterminato traffico (un milione e 543 mila e 386 tracce), ha evidenziato tutti i collegamenti più sospetti.
Alla fine, il pubblico ministero di Milano ha messo «sotto indagine» 464 utenze. Ma fuori da questo movimento sono tutte le telefonate attribuite sicuramente a Giuseppe Pansera prima di quel 17 aprile 1997, il giorno in cui il medico si spostò da Locri alla vicina Siderno per acquistare il suo primo cellulare. Non se lo potevano permettere, hanno spiegato in aula. Scrive il consulente: «Sarebbero stati dei presunti problemi economici a impedire a Giuseppe Pansera e a Giuseppe Morabito – affermati professionisti calabresi – di munirsi anzitempo di cellulari, in un’epoca, il 1995 e il 1996, in cui i telefonini erano ormai diffusi in tutte le famiglie (vedi i contratti family). La realtà che emerge invece nella sua evidenza è un’altra: che gli indagati abbiano utilizzato prima altre utenze a loro non intestati, proprio in una prospettiva illecita e perciò tale da essere nascosta». In sostanza il consulente Gioacchino Genchi sostiene che da quando Giuseppe Pansera usava il cellulare intestato a suo nome parlava liberamente, con tutti e senza paura. Tanto aveva sempre gli altri telefonini, quelli fantasma. E anche lì non amava ricevere certe chiamate. Nemmeno su quei 48 cellulari dai quali comunicava con i suoi.
È un’intercettazione ambientale che lo racconta. Sera del 1998, novembre. Giuseppe Pansera sta parlando con un tale Peppe che gli dice: «Secondo me questo lavoro che dobbiamo fare… poi abbiamo Tonino là vicino». E Pansera: «Quello è un omino da mille lire, compare». Poi l’uomo lo avverte: «Il capretto vi siete dimenticato». Pansera se ne accorge e apre il bagagliaio della sua automobile per caricare un capretto: «Qua, compare Peppe, sul sedile di dietro, ma non avete chiuso il bagagliaio». L’uomo impreca: «Mannaggia». E Pansera: «Il telefono non voglio che lo usiamo».
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