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La nomina ai vertici dell’Agenzia governativa per l’amministrazione dei beni confiscati alle mafie di Antonio Calogero Montante, detto Antonello, l’ex numero uno di Confindustria in Sicilia e leader dei professionisti dell’Antimafia, proprio mentre era iscritto sul registro degli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa (a maggio è stato condannato in primo grado a 14 anni di carcere per associazione a delinquere, corruzione e accesso abusivo a sistema informatico), è considerata ancora come uno dei grandi pasticci della storia della lotta alla criminalità organizzata.
Il manager spione, che collezionava dossier sui suoi rivali, per quel pateracchio avrebbe potuto sedere proprio accanto al procuratore nazionale antimafia, che all’epoca era Franco Roberti (ora deputato europeo del Pd).
E nella catena di comando che il primo dicembre 2014 portò all’imbarazzante nomina di Montante, ratificata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, spunta il ministro dell’Interno del governo giallorosso, Luciana Lamorgese, che all’epoca era il capo di gabinetto del ministro Angelino Alfano.
La prefetta, insomma, guidava il team di Alfano che ha dato la possibilità a Montante di mettere le mani nell’agenzia che in quel momento gestiva 1.500 aziende e 10.500 immobili, molti dei quali sequestrati a mafiosi siciliani.
A tirare fuori il documento che fotografa l’iter burocratico che partorì il pastrocchio, subito dopo la notizia ufficiale dell’incarico al prefetto Lamorgese, è stato Gioacchino Genchi, ex poliziotto, poi controverso consulente informatico delle Procure più calde d’Italia, tra le quali quella di Catanzaro ai tempi di Luigi De Magistris, e ora avvocato: «Non oso nemmeno immaginare i salti di gioia che ha fatto Antonello Montante alla lettura della lista dei ministri del secondo governo Conte, quando ha appreso della nomina a ministro dell’Interno dell’ex prefetto Luciana Lamorgese».
E, allegato al commento social, ci ha piazzato le poche righe dell’atto giudiziario che ha tirato fuori dal suo archivio e che proviene, a suo dire, dal processo Montante (nel quale è testimone).
Ecco la ricostruzione: il 14 marzo 2014 il ministro Alfano spedisce una lettera al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, con la quale lo informa della necessità di individuare due esperti, di concerto tra i due ministeri, in seno al consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.
Il 12 maggio il ministro Alfano scrive la minuta che il 28 maggio diventerà la lettera ufficiale con la quale il titolare del Viminale indica a Padoan il nominativo, pregandolo di fargli pervenire l’indicazione dell’esperto del ministero dell’Economia, in modo da assicurare, in tempi brevi, la piena operatività dell’Agenzia. Ed è a questo punto che farebbe ingresso l’ex capo di gabinetto: «Il 30 luglio 2014 il prefetto Luciana Lamorgese chiede e ottiene da Montante il suo curriculum».
E con lui, poi, firma anche dei protocolli sulla legalità all’epoca molto propagandati dal Viminale.
Insomma: al ministero ritenevano di aver puntato sull’uomo giusto: «Fu un’idea mia che nasceva dal fatto che nella gestione di questa Agenzia si notava la mancanza di elemento manageriale». È Alfano a intestarsi la nomina davanti alla commissione d’inchiesta attivata dalla Regione Sicilia per disvelare in modo completo il paludoso sistema Montante.
«Immaginai di mettere un siciliano», dice Alfano, «un antimafioso, il responsabile della legalità di Confindustria nazionale e, al tempo stesso, uno di comprovata, a quel tempo, competenza manageriale. […] Quando lo nomino all’Agenzia nazionale dei beni confiscati, eravamo all’apice. Poi, 20 giorni dopo, c’è stata la rivelazione del segreto istruttorio da parte del giornale e se violavano il segreto istruttorio 20 giorni prima non lo nominavo».
Una versione che non permette ad Alfano di autoassolversi. Perché dalla Commissione siciliana gli fanno notare: «Quando Montante viene chiamato dall’Agenzia è già iscritto nel registro degli indagati da sei mesi. La notizia circola già nelle redazioni dei giornali. Eppure nessuna informazione sull’indagine penale a carico della persona prescelta arriva né al presidente del Consiglio, cui compete la nomina, né ai ministri dell’Interno e dell’Economia, cui compete l’indicazione. Cosa ha determinato un così paradossale corto circuito informativo?».
Ma nessuno poteva immaginare che la situazione sarebbe diventata di lì a poco ancora più imbarazzante. Nei suoi appunti, infatti, Montante annota che nel giugno 2015, ossia due mesi dopo la comunicazione di autosospendersi inviata all’Agenzia dei beni confiscati all’indomani delle notizie di stampa sull’inchiesta che lo vedeva coinvolto, il prefetto Umberto Postiglione, che dell’Agenzia era il direttore, lo chiama per invitarlo a partecipare a una delle riunioni.
D’altra parte, il governo non procedeva con la revoca e Montante non si era dimesso.
Ma, ha fatto notare Claudio Fava, presidente della Commissione d’inchiesta siciliana: «tutto ci aspetta fuorché il fatto che Montante venga compulsato perché partecipi. Immaginiamo tutti cosa sarebbe accaduto il giorno dopo se davvero un indagato per mafia avesse partecipato al consiglio direttivo dell’Agenzia per i beni confiscati».
Ma per provare vergogna è già stata sufficiente la nomina.
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